Troppi equivoci sulla difesa europea

Il piano proposto dalla Commissione per un rafforzamento delle capacità militari della Ue e dei suoi membri, è stato approvato dal Consiglio europeo, e successivamente dal Parlamento europeo, con una larga maggioranza. E sicuramente questa è una ottima notizia anche perché tutt’altro che scontata. È il segnale che gli europei hanno capito che il mondo sta cambiando e anche molto rapidamente. Che la Russia di Putin è una minaccia reale e concreta anche per questa parte di Europa. E che gli USA di Trump e Musk non sono più quegli alleati affidabili cui l’Europa aveva delegato la propria difesa per circa ottanta anni, con la conseguenza che gli europei non sono in grado di prevedere se potranno continuare a contare sugli Usa per la loro sicurezza.

Il piano adottato il 6 marzo è per ora solo l’indicazione di un percorso di medio lungo periodo, con numerosi e importanti dettagli che restano da chiarire. Ma la sua approvazione è stata giustamente salutata come il segnale di una inversione di tendenza e di una nuova determinazione degli europei ad impegnarsi per una difesa europea.

Dubbi e riserve da chiarire

Eppure già dai primi commenti a caldo sono emersi dubbi e riserve. Si è obiettato che l’esclusione delle spese per la difesa dal calcolo del deficit e del debito avrebbe incoraggiato il riarmo dei singoli Paesi membri e non un progetto di difesa comune. Si è sottolineato che così facendo si finirebbe per privilegiare Paesi con spazi fiscali e di bilancio e penalizzare Paesi privi di quegli spazi di bilancio. Si è osservato che indebitarsi per la difesa avrebbe comunque avuto un impatto sulla sostenibilità dei debiti pubblici nazionali. Si è fatto presente che spendere di più per la difesa avrebbe ridotto le risorse (nazionali) per altre spese con maggiore impatto sociale (sanità scuola, ricerca ecc.). Sono riserve che confermano che la strada da fare per arrivare ad una effettiva difesa europea è ancora lunga e lastricata di incognite. E che per superare le resistenze sarebbe utile sgombrare il campo da alcuni equivoci.

I cinque equivoci da superare

1. La questione dei riarmi nazionali

Il primo equivoco riguarda la polemica sui riarmi nazionali. E qui va osservato che in una prima fase il potenziamento delle capacità militari dei singoli paesi europei sarà inevitabile. Perlomeno fino a quando la Ue non disporrà di un comando unificato e di una centrale unica per gli acquisti saranno inevitabilmente gli Stati membri che dovranno investire di più e meglio per consentire alle proprie forze armate di partecipare a progetti e iniziative comuni decise nell’ambito della Ue. A condizione che nuove spese autorizzate o finanziate dalla Ue siano finalizzate a progetti di dimensione europea. E a condizione che si avvino anche programmi comuni per colmare le carenze più evidenti degli europei (sistemi di difesa anti-missile, sistemi satellitari, droni e sistemi anti-droni, utilizzo dell’intelligenza artificiale ecc.).

2. Il rapporto con la Nato

Il secondo equivoco riguarda il rapporto con la Nato. La Ue era nata come un progetto di integrazione economica che nel corso degli anni ha sviluppato una sua dimensione politica. Ma non aveva e non ha la vocazione a trasformarsi in una alleanza militare. Il rafforzamento della difesa europea, perlomeno in una prima fase, andrà declinato quindi soprattutto come rafforzamento delle capacità di difesa degli europei da utilizzare in un quadro di collaborazione e complementarietà con la Nato. E questo è tanto più vero in una congiuntura in cui non sono chiare le intenzioni degli Usa quanto al loro coinvolgimento nella Alleanza Atlantica, e in cui la Nato è comunque destinata a europeizzarsi.

3. L’esercito europeo

Il terzo equivoco riguarda l’obiettivo del cosiddetto esercito europeo. Per il momento non si tratta di creare un esercito comune quanto di migliorare capacità nazionali da utilizzare al servizio di missioni e operazioni comuni. Anche perché un esercito comune presupporrebbe l’esistenza di un referente politico unico da cui riceverebbe ordini, di un’unica autorità politica da cui dipendere, di un unico responsabile della catena di comando e controllo, obiettivi su cui occorre fare rapidamente progressi ma che allo stato non sono ancora una realtà. Neppure la Nato, che è pur sempre una alleanza militare, dispone di forze armate comuni ma di forze armate nazionali che vengono messe a disposizione di un comando unificato per operazioni comuni.

4. I processi decisionali

Il quarto equivoco riguarda il tema dei processi decisionali. Come emerge quotidianamente dal dibattito attorno al contributo degli europei ad una conclusione del conflitto in Ucraina, si va consolidando l’idea che l’Europa debba fare ricorso a meccanismi di flessibilità nella attuazione di iniziative europee nel campo della difesa. A soluzioni che consentano di volta in volta di procedere sulla base di geometrie variabili. Sarà quindi sicuramente necessario spendere di più e meglio per la difesa, migliorare l’interoperabilità e le sinergie tra forze armate nazionali, creare un mercato interno dell’industria della difesa e una base comune europea per l’industria della difesa. Ma sarà altrettanto necessario accettare, quando necessario, il ricorso ai gruppi ristretti e alle coalizioni dei volenterosi.

5. La difesa europea come unica priorità

E infine il quinto equivoco è quello, diffuso nel dibattito politico soprattutto in Italia, che consiste nel ritenere che la difesa sia diventato l’unica priorità della Ue. Prima che il ciclone Trump si abbattesse sull’Europa, la Ue aveva adottato un programma di lavoro che conserva la sua attualità. Era un programma articolato attorno ai tre pilastri dello sviluppo di innovazione, tecnologie abilitanti e utilizzo delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, di una de-carbonizzazione compatibile con una politica industriale mirata rafforzare la competitività, e di una strategia mirata a realizzare maggiore sicurezza anche tramite riduzione delle dipendenze strategiche. La difesa europea è parte di questo programma. Ma sarebbe un errore considerarla come l’unico oggetto di discussione.

Presidente dell'Istituto Affari Internazionali. Diplomatico di carriera dal 1972 al 2013, è stato rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri.

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