Sarà l’Iran la grande occasione di pace per Trump?

In questi primi tre mesi di presidenza, Donald Trump ha fatto poco per mantenere la promessa di porre fine ai conflitti che insanguinano Europa e Medio Oriente. Il modo in cui l’amministrazione ha aperto il negoziato fra Russia e Ucraina, facendo concessioni alla prima e premendo sulla seconda, ha generato più preoccupazioni che speranze. E quando Israele ha rotto la tregua con Hamas che Trump stesso si era vantato (a ragione) di aver favorito, gli Stati Uniti non solo non hanno offerto resistenza ma hanno applaudito. Alla luce di ciò, l’annuncio di un incontro “di alto livello” fra Usa e Iran in Oman dev’essere accolto senz’altro con favore, ma anche con circospezione.

Scambi epistolari

La posta in gioco è altissima. Trump continua a evocare pubblicamente l’eventualità di un massiccio bombardamento del programma nucleare iraniano per evitare che Teheran si doti di un arsenale atomico. Allo stesso tempo, sostiene di preferire di gran lunga raggiungere un accordo, una posizione che ha espresso in una lettera personale ad Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica islamica. L’Iran, che nega di volere la bomba (e secondo l’intelligence USA non ha preso una decisione in questo senso), ha duramente criticato il linguaggio bellicoso di Trump. Si è però detto disponibile a trattare su base di mutuo rispetto; almeno questa sarebbe la sostanza della risposta di Khamenei.

L’Iran ha buoni motivi di dubitare di Trump, responsabile di aver unilateralmente ritirato gli Stati Uniti da un accordo nucleare che l’Iran e sei potenze – USA, Russia, Cina e i cosiddetti ‘E3’ (Germania, Francia e Regno Unito) più l’UE – avevano faticosamente raggiunto nel 2015. In risposta al ritiro da quell’accordo, noto come Joint Comprehensive Plan of Action o JCPOA, l’Iran ha grandemente espanso il programma nucleare.

Le ragioni dell’incontro in Oman

L’incontro in Oman è, in questo senso, un primo passo per ricostruire un minimo di fiducia reciproca. La contemporanea presenza del ministro degli esteri iraniano Seyed Abbas Araghchi e di Steve Witkoff, inviato speciale per il Medio Oriente e uomo di fiducia di Trump, fa pensare che ai primi colloqui mediati dagli omaniti possa presto seguire un incontro bilaterale. Se così fosse, Trump avrebbe ottenuto un risultato cercato invano dall’amministrazione Biden.

La maggiore flessibilità iraniana si deve, in parte, al desiderio del presidente Masoud Pezeshkian di rilanciare l’economia, il cui potenziale di crescita è compromesso dal peso delle sanzioni extraterritoriali americane.

Un altro motivo è che la situazione attuale, in cui l’Iran continua ad accumulare materiale potenzialmente impiegabile in testate pur mantenendolo al di sotto della soglia militare (weapon-grade), non è sostenibile. Entro luglio gli E3, i membri europei del JCPOA, dovranno prendere una decisione se attivare o meno uno speciale meccanismo, detto snapback, che comporterebbe la riapplicazione automatica delle sanzioni ONU. Questo costringerebbe l’Iran a reagire, per esempio cacciando gli ispettori nucleari ONU dal paese. È plausibile che l’Iran voglia evitare di essere messo in una condizione che lo esporrebbe a un maggior rischio di attacchi, e per questo abbia acconsentito alla mediazione omanita (e non degli europei, ormai estromessi nonostante il ruolo fondamentale giocato al tempo del JCPOA).

Dopotutto, i falchi anti-Iran in Israele, a partire dal premier Binyamin Netanyahu, e negli Stati Uniti, dove abbondano in Congresso, ritengono che questo sia il momento ideale per sferrare il colpo decisivo contro il cosiddetto ‘asse della resistenza’ promosso dall’Iran, che negli ultimi mesi ha visto Hezbollah fortemente ridimensionato e il regime di Bashar al-Assad in Siria liquefarsi. Gli attacchi aerei contro gli Houthi, alleati dell’Iran in Yemen, e lo schieramento nella base americana di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, di bombardieri capaci di portare potenti bombeanti-bunker rafforzano la credibilità della minaccia.

Un ultimo motivo dietro la disponibilità a trattare dell’Iran è che, per quanto difficile e incerto il negoziato, un eventuale accordo con Trump avrebbe il vantaggio di recare con sé l’appoggio di almeno parte del Partito Repubblicano (oltre che di buona parte dei Democratici) e non sarebbe così soggetto al rischio di essere cancellato da una futura amministrazione. Inoltre, Trump potrebbe mettere sul piatto la riapertura del commercio diretto Iran-USA, mentre l’accordo del 2015 si concentrava soprattutto sulla ripresa del commercio Europa-Iran.

Le prospettive per un negoziato

L’incontro in Oman serve a esplorare le posizioni di partenza e saggiare la rispettiva disponibilità a fare concessioni, soprattutto da parte americana.

Nell’amministrazione convivono infatti due anime. La prima, favorita dal segretario di stato Marco Rubio e dal consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, nonché da una nutrita schiera di Repubblicani (e qualche Democratico) e soprattutto da Netanyahu, spinge per una posizione massimalista. L’Iran dovrebbe non solo smantellare il programma nucleare, ma ridimensionare l’arsenale balistico e tagliere i ponti con le milizie che, da Hezbollah agli Houthi alle Forze di mobilitazione popolare in Iraq, compongono l’asse della resistenza. Se dovesse passare questa linea, le chance di un accordo sono scarse se non nulle.

L’alternativa è che l’amministrazione punti esclusivamente a un “verificabile accordo di pace nucleare”, come ha avuto modo di dire lo stesso Trump. Questo obiettivo è compatibile con la posizione iraniana. La questione, complessa sul piano tecnico ma certamente non irrisolvibile, diventerebbe come stabilire nuovi limiti al programma nucleare e mettere a punto un efficiente sistema di verifica (così come del si era fatto per il JCPOA).

I costi di un fallito accordo

I benefici di un accordo sono evidenti, non solo in termini di non-proliferazione nucleare ma anche di sicurezza regionale, senza contare che la riapertura del commercio con gli USA darebbe all’Iran un incentivo a evitare di schiacciarsi su Russia e Cina, come ha fatto invece in questi ultimi anni anche in conseguenza della pressione americana.

Un bombardamentocome non se ne sono mai visti”, per usare il rozzo, truculento vocabolario di Trump, presenta invece costi potenzialmente immensi a fronte di benefici incerti. Potrebbe riportare il programma nucleare iraniano indietro di qualche anno, ma non distruggerlo del tutto. Dal momento che l’Iran non avrebbe più remore a cercare un deterrente nucleare, gli USA sarebbero inoltre costretti ad attacchi ripetuti, forse per anni. Né il conflitto resterebbe limitato all’Iran: le forze americane nell’area, Israele e il commercio marittimo nel Golfo diventerebbero bersagli di una guerra asimmetrica da parte degli iraniani e dei loro alleati. Le perdite di vite umane, in una regione che nel XXI secolo sconquassata da un eccezionale livello di violenze, sarebbero significative.

Non è quindi un caso che nell’area conservatrice che fa capo al vice-presidente JD Vance, l’ipotesi di una guerra con l’Iran sia vista come il fumo negli occhi. Disgraziatamente questo potrebbe non essere sufficiente a sventare questo scenario infausto. L’amministrazione Trump non sembra avere un orientamento strategico preciso ed è popolata da personale inesperto (quando non incompetente, come dimostrato dallo scandalo Signal). Potrebbe pertanto non avere la pazienza, la disciplina e la sofisticazione diplomatica non solo per gestire un negoziato tanto delicato, ma per resistere alle pressioni della lobby anti-Iran, che ha in Netanyahu e nei suoi alleati in Congresso campioni formidabili.

Detto questo, il fatto che l’incontro in Oman si svolga all’indomani della visita di Netanyahu alla Casa Bianca può essere un segnale che, sull’Iran, Trump sia dopotutto più autonomo di quanto i suoi critici temono. Non resta che augurarselo, unendo alla speranza grande, spassionata cautela.

coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo. Di recente ha pubblicato un libro sul ruolo dell’Europa nella crisi nucleare iraniana,“Europe and Iran’s Nuclear Crisis. Lead Groups and EU Foreign Policy-Making” (Palgrave Macmillan, 2018).

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