Ora una risposta comune

All’indomani dell’elezione di Donald Trump, alcuni osservatori europei si affrettarono a spiegare che le preoccupazioni per le dichiarazioni incendiarie del presidente eletto erano infondate, dato che esse rientravano in una logica strettamente elettorale e sarebbero state quindi ridimensionate dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Altri raccomandarono di non sottovalutare i progetti trumpiani, in particolare quelli relativi al commercio e alla sicurezza, e le loro conseguenze. Ora dovrebbe essere abbastanza chiaro chi aveva ragione.   

I dazi americani sono arrivati, come preannunciato, e assestano un colpo durissimo alle economie di avversari e alleati. Si salva solo la Russia, mentre gli stessi Stati Uniti pagano subito un prezzo molto elevato. Si valutano le risposte più adeguate, si arriva anche a mettere a fuoco una soluzione ideale, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, anche se è di là da venire. Suona come una voce fuori dal coro dell’Europa, oggi in preda alle preoccupazioni e all’incredulità, dopo gli annunci con cui Trump ha festeggiato a suo modo “il giorno della liberazione”. Robert Habeck, vice cancelliere e ministro dell’Economia, assegna all’Europa un obiettivo di lungo periodo – un accordo ambizioso, di mutuo interesse per i due lati dell’Atlantico. Non importa che tra qualche settimana non sarà più membro del governo tedesco, quel che rileva è la volontà di reazione del Paese europeo più colpito dai dazi americani e l’impegno a definire un’agenda efficace a tutela dei propri interessi, molto consistenti. 

Occorre un’Unione europea coesa

Se si seguisse la logica, si dovrebbe andare verso una liberalizzazione degli scambi tra due aree economiche già così integrate e imponenti nel mondo. Ma Trump la vede in un altro modo: fissa dazi punitivi a destra e a manca, sconvolge i commerci senza distinguere tra avversari e alleati e senza battere ciglio davanti al costo salato imposto agli stessi Stati Uniti (aumento dei prezzi, inflazione etc.). Per una possibile risposta europea, è da considerare la necessità di una reazione coesa e unitaria dell’Ue, mentre sono da scongiurare ogni furbesca scorciatoia nazionale, foriera di complicazioni ulteriori del quadro, non soltanto economico. L’Europa deve essere capace di dare segnali di fermezza, di predisporre misure adeguate, non fini a sé stesse, non per rappresaglia, bensì come leva per riavviare il dialogo e negoziati indispensabili con gli Stati Uniti. Se possibile, occorrerà ricostituire la fiducia e l’equilibrio. In ogni caso, per sedersi al tavolo della trattativa occorre avere qualche buona carta in mano.

Lo sconcertante spettacolo offerto mercoledì scorso da Donald Trump dal Giardino delle Rose della Casa Bianca e le sue interpretazioni autentiche non sembrano preludere a immediate aperture negoziali né a proiezioni di lungo periodo, addirittura con una meta ideale di libero scambio. Comunque, gli europei cominciano a trarre qualche lezione dalla doccia fredda, attesa, di Washington. Nessuno vuole una guerra commerciale senza precedenti con gli Stati Uniti, il dialogo va ricercato ancor più quando l’orizzonte si rabbuia. L’Europa dovrà serrare i ranghi con misure ben calibrate per avviare su quella base un negoziato, per quanto teso, non per aumentare le tensioni e rischiare una spirale di ritorsioni fuori controllo. Saranno di aiuto anche un’opportuna diversificazione e l’aumento degli scambi europei con Mercosur, Messico e India. 

Vari leader europei e la presidente della Commissione hanno parlato con chiarezza. I dazi di Trump assestano “un colpo durissimo” all’economia mondiale e anche a quella americana, come confermato da tutti gli indicatori. L’Europa, il più grande mercato del mondo, è ancora disorientata di fronte all’abbandono da parte del suo più antico alleato. Oggi si patisce nel commercio, domani il prezzo sarà da pagare nel campo della difesa e sicurezza. Gli avvertimenti non sono mancati. 

Per i dazi, non ci si dovrebbe sorprendere che essi siano diretti senza distinzioni a tutti gli europei. Non sono solo i trattati a imporre una risposta comune dell’Ue, ma la necessità di essere ascoltati ed efficaci. Certo, sull’amministrazione americana potrebbe pesare anche la pressione dissuasiva di settori dell’economia Usa fortemente penalizzati. Tuttavia la difesa dei propri interessi non può essere delegata ad altri né si può sperare in ravvedimenti provvidenziali. Fermezza e dialogo sono gli strumenti necessari in una situazione grave e di estrema incertezza, sempre gravida di rischi pesanti nell’economia e nella politica internazionale. Per questo occorre scongiurarla con ogni mezzo, riconoscendo che chi si spinge fino a considerare l’emergenza come un’“opportunità” si illude e illude pericolosamente quanti cercano invece risposte razionali.

Valensise

Presidente dell'Istituto Affari Internazionali e presidente del Centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni su proposta congiunta dei governi italiano e tedesco. Diplomatico di carriera, ha lavorato alla Direzione degli Affari Economici (1975), all’Ambasciata d’Italia a Brasilia (1978) e all’Ambasciata d’Italia a Bonn (1981). Dal 1984 al 1987 è stato consigliere a Beirut. Nel 1991 è nominato Primo consigliere a Bruxelles, presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Nel 1997 diventa ambasciatore a Sarajevo. Nel 1999 assume la direzione dei Rapporti con il Parlamento e poi del Servizio Stampa alla Farnesina. È Ambasciatore a Brasilia dal 2004, a Berlino dal 2009 e Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016.

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