Netanyahu e la destabilizzazione sistemica del Medio Oriente

Fin dagli anni Novanta, quando contribuì ad affossare in maniera decisiva il processo di pace con i palestinesi avviato a Oslo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preferito parlare meno di Palestina e più di Iran.

Non c’è dubbio che dietro la fissazione di Netanyahu per l’Iran ci siano autentiche preoccupazioni di sicurezza, visto che l’avversione nei confronti della “entità sionista” è una delle trame più spesse del tessuto ideologico della Repubblica islamica. Ma soprattutto c’è la strategia di sfruttare la conflittualità con l’Iran e i suoi alleati per portare avanti il progetto di espansione israeliana a Gerusalemme Est e in Cisgiordania anche a costo di sottoporre milioni di persone a un regime di apartheid di fatto. E, naturalmente, di tenere Netanyahu stesso ben saldo alla guida del governo.

Il nemico ideale

La campagna di demonizzazione dell’Iran da parte di Netanyahu è stato uno straordinario successo. Del resto, essa si incontrava con sentimenti diffusi nell’establishment di politica estera degli Stati Uniti, che non aveva mai del tutto digerito la caduta dello scià, loro alleato, nonché l’umiliazione della lunga crisi degli ostaggi fra il 1979 e l’81. Liquidato come il principale sponsor del terrorismo, l’Iran è presto finito sotto un embargo commerciale americano pressoché totale, comprensivo anche di sanzioni extraterritoriali.

Fra i primi anni Duemila e la metà degli anni Dieci circostanze straordinarie portano il governo americano a rivedere la politica verso l’Iran. L’invasione dell’Iraq da parte degli Usa toglie di mezzo un regime che, pur criminale, offriva un argine all’influenza iraniana in quel paese. Con migliaia di soldati schierati in Iraq, gli Stati Uniti si scoprono più vulnerabili a un’Iran che beneficia anche degli alti prezzi energetici. La resistenza di Hezbollah alla massiccia campagna scatenatagli contro da Israele nell’agosto 2006 contribuisce ulteriormente ad aumentare la fiducia di Teheran.

Nel contempo, l’Iran ha individuato in un programma nucleare che americani, europei e israeliani temono possa avere una destinazione militare una carta per negoziare con l’Occidente. Dopo anni di aperture diplomatiche a singhiozzo e sanzioni, l’Iran si accorda infine con l’America di Obama (oltre che con Europa, Cina e Russia) per mettere dei limiti severi ma temporanei al suo programma nucleare.

Questo è il punto di massimo distacco fra Stati Uniti e Israele, che non cessa fino all’ultimo di lottare ferocemente contro un accordo che, sostiene Netanyahu, è insufficiente. Nonostante l’intesa diventi operativa nel 2016, Netanyahu ne trae comunque benefici per sé e l’espansionismo israeliano. Le tensioni sull’Iran persuadono infatti l’Amministrazione Obama a chiudere un occhio sulla continua espropriazione e repressione dei palestinesi nei territori occupati da Israele.

Così efficace è la retorica anti-iraniana di Netanyahu che negli Stati Uniti la linea di Obama ha pochi sostenitori. Non a caso, quando nel 2018 Donald Trump ritira unilateralmente gli Usa dall’accordo nucleare, adottando nuovamente tutte le sanzioni, non si levano grandi proteste. Eppure gli effetti sono nefasti: il programma nucleare iraniano torna a crescere sempre più e a Teheran i conservatori oltranzisti estromettono la fazione più moderata screditata dal fallimento dell’accordo nucleare. Il risultato è un Iran più repressivo internamente e aggressivo nella regione.

Eppure, l’antagonismo radicale verso l’Iran continua a portare benefici. Intimoriti dall’Iran, Emirati e Arabia Saudita si convincono dei vantaggi di stringere rapporti con Israele. Soprattutto, il focus sull’Iran continua a funzionare come una lente distorsiva dell’espansionismo israeliano in Palestina, che viene perversamente legittimato dall’estremismo palestinese sostenuto da Teheran. Netanyahu si può intestare entrambi i risultati.

Una strategia che non smette di pagare per Netanyahu…

La strategia irano-centrica ha continuato a pagare per il premier israeliano anche dopo il disastro del 7 ottobre 2023. Alzando costantemente la posta nello scontro a crescente intensità con Hezbollah e l’Iran, il governo israeliano ha cercato di ristabilire la deterrenza e infliggere danno ai suoi nemici, ma ha anche spostato l’attenzione da Gaza. Questo non ha solo ridotto la propensione degli Stati Uniti a fare pressione su Israele perché cercasse una tregua e liberasse gli ostaggi catturati da Hamas. Ha anche costretto Washington e i suoi partner europei e arabi a intervenire in difesa di Israele quando l’Iran l’ha attaccato in risposta al bombardamento israeliano del suo consolato di Damasco.

Così, fra mille difficoltà, il premier israeliano resta in sella, nonostante il clamoroso fallimento di intelligence del 7 ottobre, le condanne internazionali per la devastazione di Gaza (che passano anche per due casi su genocidio e crimini di guerra presso la Corte di giustizia e il Tribunale penale internazionali), la mancata liberazione degli ostaggi e la persistente, seppur flebile, resistenza di Hamas.

L’invito dei Repubblicani a parlare al Congresso a fine luglio offre a Netanyahu un’ulteriore occasione per spostare nuovamente il focus sull’Iran e i suoi alleati. Il razzo sparato dal Libano che, probabilmente per errore, uccide un gruppo di adolescenti nel Golan occupato da Israele, gli fornisce il pretesto. Così arrivano i due ordini per il doppio assassinio mirato di un alto funzionario di Hezbollah e di Ismail Haniyeh, leader dell’ala politica di Hamas. Quest’ultimo è colpito a Teheran dove si era recato per assistere all’inaugurazione del nuovo presidente, Mahmoud Pezeshkian, un riformista che in campagna elettorale aveva criticato la repressione delle proteste anti-governative dell’autunno 2022 e si era espresso a favore di una riapertura del dialogo con l’Europa.

…e destabilizzare la regione

Così, in una sola notte, il premier israeliano ha fatalmente minato il negoziato sul cessate il fuoco a Gaza, creato le premesse per un’escalation regionale e compromesso in partenza ogni possibile ripresa dei contatti Iran-Usa.

Ci sono pochi dubbi infatti che l’Iran e i suoi alleati risponderanno alla tripla umiliazione. Se l’attacco fosse di entità tale che Israele si sentisse pienamente legittimato a un’ulteriore rappresaglia, l’amministrazione Biden dovrà prendere la difficile decisione se seguire Israele in una guerra regionale che non vuole e non ha pianificato o se invece pagare il prezzo politico interno (con potenziale danno per le chance elettorali di Kamala Harris) di opporre un rifiuto a Netanyahu.

Comunque vadano le cose nei prossimi giorni, una cosa è certa: per Netanyahu giocare la carta della continua antagonizzazione dell’Iran – una prassi alla quale i conservatori iraniani si sono ben prestati, così come i loro alleati Hezbollah e Hamas – ha portato immensi benefici, politici e personali. Ma ha anche contribuito in maniera decisiva alla destabilizzazione sistemica del Medio Oriente.

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