Mediterraneo allargato: dalle primavere arabe al Piano Mattei

Il Mediterraneo è una delle principali aree di proiezione italiana sin dai tempi dell’Unità d’Italia. Secondo un’interpretazione consolidata, nel secondo dopoguerra, la direttrice mediterranea – a fianco di quella atlantica e di quella europea – ha rappresentato uno dei tre cerchi concentrici della politica estera italiana, sia pur con livelli di attenzione e impegno variabili nel tempo e a seconda dei governi. A detta di molti, lo scacchiere mediterraneo è quello in cui l’Italia può giocare un ruolo di maggior peso e costituisce un laboratorio, in scala, per la politica estera italiana e le sue trasformazioni nel loro complesso.

Negli ultimi decenni, il perimetro della strategia italiana si è andato ridefinendo in senso più ampio, grazie all’introduzione del concetto di Mediterraneo allargato. Questa espressione, nata negli ambienti della Marina militare negli anni Ottanta, è stata poi fatta propria anche dai ministeri della Difesa e degli Esteri e dal gergo specialistico, spesso con riferimento all’impegno italiano nella regione nell’ambito delle missioni militari internazionali.

Come per tutti i costrutti geopolitici, è difficile dare una definizione univoca di Mediterraneo allargato: l’espressione ha mostrato notevole fluidità nel corso del tempo e a seconda delle circostanze, finendo per comprendere una varietà di aree che spaziano, a seconda dei casi, dal Golfo di Guinea sino all’Oceano Indiano e al Mar Nero. Queste diverse perimetrazioni sono il riflesso dell’evoluzione delle priorità della politica estera italiana nel corso degli anni in conseguenza di cambiamenti nello scenario internazionale e nel contesto domestico. Negli ultimi quindici anni, a partire dalle cosiddette “primavere arabe” del 2011, il Mediterraneo allargato ha assunto una valenza ancora maggiore per l’Italia, che è stata per certi versi ulteriormente accentuata a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.

La questione migratoria

L’inizio degli anni 2010 fu caratterizzato dalle sollevazioni popolari in Nord Africa e Medioriente note al grande pubblico come “primavere arabe”. Fino ad allora, le leadership autoritarie e repressive dei paesi della regione erano state per lo più considerate come una fonte di stabilità dai governi occidentali, anche in una prospettiva di lotta al fondamentalismo islamico. In questo, Roma non faceva eccezione. Al contrario, il rapporto personale tra Silvio Berlusconi e Muhammar Gheddafi era paradigmatico di questo modus operandi: il Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione sottoscritto nel 2008 aveva definito un complesso intreccio di rapporti di natura economica tra i due paesi, a cui si accompagnava un importante riconoscimento internazionale per il regime di Gheddafi e un supporto fornito a Roma da parte di Tripoli nel contrasto all’immigrazione irregolare, secondo una logica che oggi definiremmo di “esternalizzazione”, in cui l’attenzione al tema dei diritti umani passava decisamente in secondo piano. Un simile blueprint veniva usato anche nei confronti di Egitto e Tunisia. Esponenti di spicco del governo esprimevano l’auspicio che, a partire da queste basi, si potesse andare verso la definizione di un nuovo paradigma più generale di collaborazione tra Italia e Africa, “senza i vecchi paternalismi”.

I rovesciamenti dei governi autoritari in paesi chiave del Nord Africa a inizio 2011 costrinsero il governo italiano a rincorrere gli eventi. In Egitto e Tunisia, Roma dovette adattarsi a stabilire rapidamente canali di dialogo con le nuove autorità, mentre il caso libico fu decisamente più problematico. La lunga insurrezione, culminata nell’intervento militare occidentale avallato dalla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, colse il governo italiano di sorpresa: non a caso la tardiva partecipazione dell’Italia alla coalizione anti-Gheddafi fu sancita dall’intervento in prima persona del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, secondo ricostruzioni successive.

L’apertura di una lunga fase di instabilità in Libia e l’inasprirsi della guerra civile siriana portarono a un incremento sostanziale dell’immigrazione irregolare attraverso il Mediterraneo. Proprio quello delle migrazioni divenne uno dei principali dossier nelle politiche verso la regione dei governi che si succedettero a seguito delle dimissioni di Silvio Berlusconi a novembre 2011. Dopo l’esperienza dell’esecutivo tecnico di Mario Monti, i governi guidati da Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni dovettero tutti, con metodi diversi e alterne fortune, cercare di bilanciare l’esigenza di gestire flussi migratori che suscitavano preoccupazione nelle opinioni pubbliche con quella di salvaguardare il rispetto dei diritti umani. Un tratto di continuità fu quello di cercare di “europeizzare” la questione: la nascita di missioni continentali per il pattugliamento e il soccorso in mare, la creazione di gruppi di lavoro multilaterali e altre iniziative analoghe furono le principali iniziative adottate in questo periodo, in continuità con l’approccio generalmente più europeista delle maggioranze di centrosinistra italiane.

Un elemento di significativa novità nelle politiche mediterranee fu invece rappresentato dal tentativo di ampliare il raggio d’azione anche ad aree dell’Africa sub-sahariana in cui l’Italia era storicamente assente. Nel 2013 venne inaugurata dal Ministero degli Esteri l’iniziativa Italia-Africa, che avrebbe poi portato alla nascita di vertici annuali. L’anno seguente, il presidente del Consiglio Renzi compì un viaggio in Africa con tappe in Angola, Mozambico e Repubblica del Congo, accompagnato dai vertici di alcune grandi aziende italiane, per portare avanti un doppio binario di diplomazia pubblica e business-oriented.

Il governo Gentiloni proseguì su questa linea, ma al tempo stesso impresse alla propria azione una svolta securitaria. A guidare le negoziazioni con il governo libico di Serraj, in particolare, fu il ministro degli Interni Marco Minniti, che cercò di stabilire un paradigma per l’esternalizzazione della gestione dei flussi, in un precario equilibrio tra rassicurazioni per l’opinione pubblica italiana e rispetto dei diritti umani dei migranti. Dopo il temporaneo ridimensionamento della centralità del tema nel periodo pandemico, questo approccio al dossier migrazioni nel Mediterraneo è stato in un certo senso ripreso e riproposto dall’attuale esecutivo: lo testimoniano il ruolo giocato dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni nella definizione del Memorandum of Understanding tra Unione Europea e Tunisia del luglio 2023 e il protocollo bilaterale sottoscritto da Roma e Tirana “per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria” a fine 2023.

Le missioni internazionali

Altro punto prioritario della presenza italiana nel Mediterraneo allargato è quello delle missioni militari internazionali. La politica estera dell’Italia è stata caratterizzata da un certo attivismo per quel che riguarda la partecipazione alle missioni militari, specialmente dalla fine della guerra fredda in poi. Finita la stagione delle guerre balcaniche, l’impiego dei militari italiani si è concentrato soprattutto nel Mediterraneo allargato. La missione di gran lunga più longeva e a cui hanno preso parte i contingenti più significativi è quella UniFil in Libano, sviluppata nel quadro onusiano. Attualmente l’Italia contribuisce alla missione con oltre mille uomini, e per lunghi periodi ne ha mantenuto la guida. A essa si affianca inoltre una missione bilaterale, Mibil.

In ambito Nato, nel corso degli ultimi quindici anni sono state fondamentali le partecipazioni italiane alle missioni in Iraq e Afghanistan, mentre le missioni europee, oltre a quelle già citate in ambito marittimo nel Mediterraneo, hanno riguardato principalmente la formazione del personale militare, ad esempio in Somalia e Mali.

Negli ultimi mesi, la minaccia degli attacchi Houthi nei confronti delle navi commerciali in transito nel mar Rosso ha aperto un nuovo e ulteriore capitolo dell’impegno militare italiano nella regione. Dopo una lunga attesa, il varo della missione difensiva Aspides dell’Unione europea e il coinvolgimento di Roma al suo interno rappresentano uno sviluppo significativo nel quadro delle missioni militari italiane nel Mediterraneo allargato, che pone nuove sfide che andranno gestite con attenzione.

Lo scoppio della guerra contro l’Ucraina e le nuove priorità

Pur non essendo direttamente contigua al Mediterraneo allargato (almeno nella sua accezione più diffusa), la guerra contro l’Ucraina ha avuto un impatto significativo sulle politiche italiane verso la regione. In ambito Nato, in un lasso di tempo relativamente ridotto, il cosiddetto “Fianco sud” dell’alleanza, corrispondente grossomodo all’area mediterranea e mediorientale, ha perso di importanza rispetto al fianco est e all’urgenza di far fronte all’aggressione russa. La sfida per l’Italia è diventata quindi quella di mantenere viva l’attenzione degli alleati sul Mediterraneo allargato, contribuendo al contempo allo sforzo collettivo di sostegno non solo politico e finanziario, ma anche militare, al governo di Kyiv.

L’approccio attuale di Roma verso il Mediterraneo allargato non è però guidato da priorità militari. La brusca cesura nei rapporti con Mosca ha imposto una rapida sostituzione delle fonti di approvvigionamento energetico. I governi di Mario Draghi prima e Giorgia Meloni poi hanno quindi rivolto lo sguardo verso sud in cerca di alternative. L’Algeria è diventata in breve tempo il principale fornitore di energia dell’Italia grazie a un lavoro diplomatico iniziato poche settimane dopo l’inizio del conflitto. Più in generale, la strategia di accordi bilaterali di fornitura ha permesso all’Italia di costruire una rete di accordi portati avanti poi anche dopo la caduta del governo Draghi.

In un’ottica più complessiva, il governo Meloni ha dato grande importanza a un nuovo approccio italiano all’Africa, che si è esplicato nel cosiddetto Piano Mattei. Il Piano Mattei è una struttura di missione in capo alla Presidenza del Consiglio nata con l’idea di strutturare la politica estera dell’Italia nei confronti dell’Africa in un unico centro. L’idea del Piano parte da lontano, e si rifà sia all’esperienza di Enrico Mattei, sia a dei presupposti di cooperazione “alla pari” presenti da tempo nei documenti programmatici della Farnesina. Dopo una lunga fase di lancio, culminata con il summit Italia-Africa di fine gennaio 2024, il progetto non è ancora decollato in maniera organica: sotto l’ombrello del Piano sono ricompresi una serie di progetti pilota strutturati in sei settori di intervento e che vedono la collaborazione di diversi paesi tramite accordi bilaterali. Tra gli obiettivi più ambiziosi del Piano c’è proprio quello di fare dell’Italia un “hub energetico” del Mediterraneo, nel solco di una tradizionale direttrice di politica estera adattata adesso alle necessità più immediate, mentre restano maggiormente sullo sfondo migrazioni e (ancor più) sicurezza, due dossier che in passato avevano guidato l’agenda italiana verso il continente africano e il Mediterraneo allargato più in generale.

Le prospettive future

È difficile ipotizzare a oggi un compiuto sviluppo per il Piano Mattei, sia in virtù dei tanti passaggi in via di definizione sia per la natura multiforme dell’iniziativa. Il pregio che però si può già ora attribuire a questa iniziativa è quello di cercare di dare una veste unitaria e organica a iniziative di policy verso il continente africano, in precedenza perseguite in maniera a tratti intermittente e senza un pieno coordinamento degli attori coinvolti. L’ambizione di una politica strutturata verso la regione che possa proseguire a prescindere dalle logiche dell’alternanza delle maggioranze di governo costituisce potenzialmente una novità importante per la politica estera italiana verso il Mediterraneo allargato. Restano tuttavia da sciogliere il nodo delle risorse e la compatibilità del progetto con iniziative analoghe di carattere europeo, su tutte il Global Gateway, che potrebbe fornire la necessaria sponda multilaterale al Piano, a patto di accettare una maggiore europeizzazione dei progetti e di rinunciare a farne un’iniziativa strettamente di bandiera, in nome di un superiore interesse nazionale ed europeo.

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