L’ultimo triennio dello scorso secolo dovrebbe essere ricordato (e studiato) come un periodo particolarmente positivo per la costruzione dell’Europa della difesa. Purtroppo è stato una meteora che ha rischiarato solo temporaneamente il cielo del Vecchio Continente, lasciando poche tracce. Ma venticinque anni dopo, nel confuso quadro europeo della difesa e nella palese mancanza di una strategia credibile per rafforzare tempestivamente le sue capacità di difesa e sicurezza, qualche insegnamento potrebbe essere ancora di grande aiuto.
Anche allora, come oggi, l’attivismo europeo fu innescato dai cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti. Dopo la fine della Guerra Fredda (con la sconfitta della Russia nella competizione bipolare e la perdita del suo controllo sull’Europa orientale) iniziò un inevitabile adeguamento del modello di difesa americano al nuovo scenario strategico sia sul piano organizzativo e operativo delle forze armate sia su quello industriale e tecnologico. Nel luglio 1993 il Sottosegretario alla Difesa Perry ospitò a cena un centinaio di dirigenti delle imprese americane della difesa e indicò la necessità di un consolidamento della struttura industriale per affrontare il taglio delle spese militari derivante dal “dividendo della pace”. Nel giro di pochi anni i grandi prime contractor si ridussero così alle dita di una mano.
La nascita di questi colossi metteva a serio rischio la sopravvivenza dell’industria europea, da sempre molto più frastagliata di quella americana. Iniziò così nella seconda metà di quel decennio un processo di concentrazione anche in Europa, prima a livello nazionale e poi, in parte, a livello continentale. Ma essendo rimasti separati, i mercati europei della difesa non consentirono ai nuovi grandi gruppi di ristrutturarsi e razionalizzarsi anche sul piano tecnologico e industriale, limitandosi quasi solo al piano finanziario, gestionale e in parte commerciale.
Per una fortunata coincidenza nei sei principali paesi dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna, Svezia) vi erano contemporaneamente in quel periodo governi responsabili, con autorevoli ministri della difesa (fra cui Richard, Ruhe, Robertson e il compianto Andreatta), tutti convinti che, per rafforzare l’integrazione europea e poter competere e collaborare con i giganti americani, fosse necessario costruire anche qui dei grandi gruppi che, necessariamente, avrebbero dovuto essere transnazionali. Una comune visione strategica che permise di arrivare in pochi mesi, nel luglio 1998, alla firma di una Lettera di Intenti sulle “Misure per facilitare la ristrutturazione dell’industria europea della difesa”. Il seme era stato piantato e così, nonostante elezioni e cambiamenti di governo e ministri (fra cui Mattarella al posto di Andreatta), germogliò dando vita all’Accordo Quadro del luglio 2000 relativo alle “Misure per facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria europea della difesa” (chiarendo nel titolo che l’obiettivo era quello di migliorare le capacità tecnologiche e industriali europee).
L’industria dell’aerospazio-sicurezza-difesa opera per definizione su un mercato controllato dallo Stato che ne è il principale cliente ed è il “regolatore” di questo mercato (definizione dei requisiti degli equipaggiamenti, finanziamenti a ricerca e sviluppo, controllo e sostegno delle esportazioni anche attraverso accordi governo-governo, controllo degli investimenti esteri, tutela della sicurezza delle informazioni, ecc.). Impossibile favorire effettivamente la concentrazione dell’offerta senza assicurare, se non quella della domanda, almeno la possibilità delle imprese di muoversi sul mercato europeo quasi come se fosse un unico mercato, anche se la strada per renderlo tale sul piano sarebbe stata ed è rimasta molto più lunga.
Costruire un mercato europeo della difesa
Di qui, quasi trenta anni orsono, l’intuizione politica che bisognava cominciare a promuovere la costruzione dell’Europa della difesa partendo dal mercato e dalle sue regole, creando una “bolla” transnazionale in cui le imprese potessero diventare più forti ed efficienti. Il risultato sarebbe stato, seppur gradualmente, una competizione ad armi pari in cui avrebbero vinto le migliori imprese, inevitabilmente diluendo la loro identità nazionale in una più ampia identità transnazionale europea. Questo avrebbe reso necessario, sul fronte della domanda, un forte coordinamento delle politiche di difesa (comprendendovi tutte le aree di regolazione del mercato di responsabilità nazionale).
La forte spinta politica si esaurì rapidamente nel confuso e frastagliato quadro politico dei paesi coinvolti e della stessa Unione europea. Qualcuno, inoltre, si illuse che sarebbe stato possibile o più facile procedere sul piano comunitario invece che su quello intergovernativo (e per di più fuori dai Trattati). Purtroppo così non è avvenuto, per lo meno fino ad ora.
Le aree previste dall’Accordo Quadro hanno, comunque, mantenuto tutta la loro attualità: sicurezza degli approvvigionamenti, procedure di trasferimento e di esportazione, sicurezza delle informazioni classificate, ricerca e tecnologia nel settore della difesa, trattamento delle informazioni tecniche, armonizzazione dei requisiti militari, tutela delle informazioni sensibili a livello commerciale. Questo è ancora oggi il perimetro della collaborazione europea che si deve realizzare sia in termini di mercato sia in termini di partecipanti perché senza il Regno Unito resta sempre un partner europeo indispensabile.
Da qui si potrebbe, quindi, ripartire con la consapevolezza che gli stessi sei paesi (trovando una soluzione giuridica alle conseguenze della Brexit) rappresentano, insieme alla Polonia, il 90% delle capacità tecnologiche e industriali europee. Essendo un Trattato internazionale di cui proprio il Regno Unito è il “depositario”, potrebbe essere più facile rivederlo e adeguarlo ai cambiamenti intervenuti e alle nuove esigenze che non partire da zero. Ancora una volta serve, però, una forte volontà politica per riprendere la strada adattandola ai cambiamenti intercorsi. La soluzione non è nelle mani dei tecnici (né a livello militare e diplomatico né a livello industriale), ma prima di tutto in quelle dei ministri e dei governi.
Vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali. Dal 1984 svolge attività di studio e consulenza nel settore aerospaziale sicurezza e difesa per conto di organismi pubblici, di centri e istituti di ricerca, di società, di associazioni industriali. Dal 1992 al maggio 2018 è stato consulente della Presidenza del Consiglio presso l’Ufficio del Consigliere militare per le attività nel campo della difesa. Dal 2001 al 2017 è stato consulente del Ministero della Difesa – Segretariato generale della Difesa/Direzione nazionale degli armamenti – per gli accordi internazionali riguardanti il mercato della difesa. Dal 2014 al maggio 2018 è stato consigliere per gli affari europei del Ministro della Difesa e dal giugno 2020 ha riassunto lo stesso incarico.