La notte più lunga. Attacchi da Beirut a Teheran. Il messaggio di Israele.

In una sola notte di fine luglio, Israele ha colpito Libano e Iran, eliminando una personalità di spicco del movimento degli Hezbollah e il leader politico di Hamas ed ex-primo ministro palestinese Ismail Haniyeh, in visita a Tehran per la cerimonia di investitura del nuovo presidente iraniano.

Il tutto è accaduto nell’arco di meno di 24 ore. Con queste operazioni, Israele lancia un messaggio chiaro: è in grado di penetrare la Repubblica islamica e i movimenti satelliti a essa affiliati, conducendo operazioni su un ampio territorio che va dal Libano fino all’Iran, smantellando quella rete di personalità ideologicamente e logisticamente affiliate alle guardie rivoluzionarie iraniane, parte del cosiddetto “asse della resistenza”.

Queste operazioni delineano i contorni della strategia israeliana di sicurezza nazionale. Ormai non si tratta esclusivamente delle mire del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, determinato a utilizzare il conflitto per restare al potere, ma di un più profondo ripensamento dei rapporti politici e delle strategie belliche nei confronti del vicinato che, a partire dal 7 ottobre, coinvolge parte dell’establishment e della società israeliana stessa.

Questo ripensamento coinvolge almeno tre aspetti. In primo luogo, l’Israele del post 7 ottobre mira alla distruzione del nemico invece che al suo contenimento. Un nemico che viene identificato con Hamas ma anche con i civili palestinesi di Gaza, considerati tutti complici e quindi puniti con un’operazione che ha causato almeno 40.000 vittime civili nell’arco degli ultimi dieci mesi. Nemici considerati ormai parte di un fronte unico sono poi i movimenti satelliti dell’Iran, dal Libano alla Siria, all’Iraq, allo Yemen. I molteplici attacchi di Hezbollah al confine tra Israele e Libano all’indomani del 7 ottobre, gli attacchi e i contrattacchi tra il gruppo Houthi dello Yemen e Israele e la solidarietà delle milizie filo-iraniane in Iraq alle operazioni di Hamas hanno certamente contribuito a rafforzare, all’interno della classe dirigente in Israele e in vaste sacche della popolazione, la tesi secondo la quale per Israele è arrivato il momento di sconfiggere non solo Hamas ma anche tutti i suoi alleati che fanno capo a Teheran.

In sintesi, gli eventi del 7 ottobre hanno portato lo stato ebraico ad accantonare la strategia del contenimento di Hamas a Gaza e dell’Iran nella regione. Israele adesso dà la priorità all’annientamento del nemico anche a costo di aumentare il rischio di provocare, con queste operazioni, una guerra regionale. Queste sono le motivazioni che, di volta in volta, hanno portato lo stato ebraico a intraprendere operazioni rischiose con l’obiettivo di decapitare la rete di personalità di potere nel circuito della resistenza e di riaffermare la sua autorità di fronte all’Iran e ai suoi alleati in luoghi sensibili. Tra questi, il consolato iraniano in Siria, il quartier generale di Hezbollah nella periferia di Beirut e il compound governativo iraniano dove alloggiava a Tehran il leader di Hamas, Haniyeh, in occasione della cerimonia di inaugurazione del nuovo presidente iraniano.

La sconfitta del nemico ha poi acquisito priorità rispetto ai processi di normalizzazione tra Israele e gli stati arabi. Prima del 7 ottobre, la strategia del contenimento dell’Iran andava di pari passo con la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il Golfo arabo e aveva anche l’effetto di aumentare l’isolamento della Repubblica islamica rispetto ai suoi vicini arabi. Ai due firmatari di accordi di pace con Israele, Egitto e Giordania, si sono aggiunti dal 2020 anche Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco, che con gli Accordi di Abramo hanno ristabilito relazioni diplomatiche con Israele, aprendo anche le prospettive per una normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Oggi, la diplomazia con il mondo arabo non è più la priorità per Gerusalemme. La guerra a Gaza ha già fortemente danneggiato le relazioni tra Israele e Egitto così come quelle con la Giordania. L’Arabia Saudita ha poi escluso un ritorno ai negoziati in assenza di trattative serie su un cessate il fuoco permanente a Gaza e la creazione di un futuro stato palestinese. Agli occhi di Israele, le operazioni dell’Iran e dei suoi alleati in risposta agli attacchi israeliani porteranno gli stati del mondo arabo a cercare protezione negli Stati Uniti e quindi a piegarsi a una crescente cooperazione militare e securitaria con lo stato ebraico. Questa tesi, seppur logica, trascura i legami esistenti e continuativi che molte delle potenze del Golfo (inclusi Emirati e Arabia Saudita) intrattengono con l’Iran e ne sottovaluta l’importanza nella strategia di questi stati. Trascurato è anche l’aspetto della questione palestinese, che continua a essere fonte di mobilitazione delle masse arabe. Una variabile che le monarchie del Golfo, anche quelle più determinate al pragmatismo politico, non possono tralasciare.

Infine la relazione tra Israele e Stati Uniti ha subito un cambiamento drastico. Per anni, Washington ha cercato di coordinare e monitorare le operazioni israeliane contro l’Iran e suoi alleati per evitare che queste scatenassero una guerra regionale. Gli eventi di ottobre scorso hanno diminuito la capacità degli Stati Uniti di operare pressione su Israele. In questa nuova fase della sua storia, è Israele a fare pressione su Washington per raggiungere i propri obiettivi di sicurezza nazionale anche al costo di far emergere le contraddizioni tra interessi strategici americani e israeliani. Biden non è stato forte su questo e ha lasciato a Netanyahu campo libero. La preoccupazione di Washington è di evitare lo scoppio di una guerra in Medio Oriente che obbligherebbe gli Stati Uniti a intervenire al fianco di Israele. Da qui i tentativi della diplomazia americana in Libano di mediare tra Israele e Hezbollah. Tuttavia, come mostrano gli eventi degli ultimi giorni, Israele ha ottenuto di avere mano libera in operazioni che hanno tutta la potenzialità di scatenare una reazione forte e un conflitto su più larga scala.

La logica dello stato ebraico nel post 7 ottobre e quella dell’Iran sembrano ormai chiare e sono inesorabilmente destinate a trascinare la regione in un conflitto più ampio. Permangono tuttavia alcune variabili imprevedibili che possono frenare o accelerare il conflitto. Tra queste, la più importante è l’esito delle elezioni americane e l’abilità del prossimo inquilino della Casa Bianca di ridefinire gli equilibri tra interessi israeliani e americani qualora questi non coincidano, come in questa circostanza.

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