A poco più di dieci settimane dall’inizio del suo mandato, il Presidente Donald Trump ha annunciato una guerra commerciale verso il mondo con una messe di dazi che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. L’Europa è tra le maggiori vittime, accusata ripetutamente da Trump di aver biecamente sfruttato in passato il grande e ricco mercato americano. Le importazioni dall’Europa verranno gravate di dazi del 20%, dopo le tariffe del 25% introdotte dall’Amministrazione americana sulle importazioni di acciaio e alluminio e, più di recente, su quelle di automobili.
Le ragioni economiche avanzate dall’Amministrazione americana per giustificare tali nuove pesanti misure (deficit commerciale americano e protezionismo europeo) risultano del tutto inconsistenti, se analizzate con attenzione. È vero che l’Unione ha accumulato, negli anni, un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti di entità rilevante. Ma considerando l’intera bilancia dei pagamenti correnti – come si deve fare – e includendo quindi il surplus statunitense nel settore dei servizi (109 miliardi di euro), il saldo complessivo tra Ue e Usa risulta pressoché in equilibrio. Anche sotto il profilo dei dazi reciproci, al centro delle accuse americane, le differenze sono minime: la tariffa media ponderata americana è del 2,2%, contro il 2,7% europeo.
Dietro l’apparente crociata economica, c’è dunque altro. È una visione di politica internazionale, una sorta di realpolitik, ben più aggressiva e mirata a rivoluzionare gli equilibri globali. Donald Trump è da sempre convinto che l’ordine economico liberale dei passati decenni con le sue regole e istituzioni e, in particolare, il sistema commerciale multilaterale, abbiano depredato e reso vulnerabile l’economia americana, soprattutto nei confronti di rivali strategici come la Cina. Vanno dunque abbattuti e sostituiti con un sistema di rapporti bilaterali, peraltro ancora abbozzato in modo vago dal Presidente americano, in cui Washington possa esercitare la propria supremazia economica e militare ricavandone vantaggi cospicui e di varia natura. Lo tsunami dei dazi del 2 aprile è dunque l’annuncio di un’offensiva su scala globale che apre una fase di inusitata incertezza economica e politica.
Verso un negoziato duro, lungo e difficile
Nel chiedersi come debba e possa rispondere l’Europa, va innanzi tutto ricordato che tra le grandi aree mondiali l’economia europea è quella più aperta agli scambi internazionali. Difendere e consolidare questa profonda integrazione con l’economia mondiale è un’assoluta priorità europea.
Tre appaiono le direttrici lungo cui l’Unione dovrebbe muoversi per cercare di mitigare i danni della guerra scatenata da Trump. La prima è affrontare con determinazione l’Amministrazione americana sul terreno dei dazi, mantenendo una linea negoziale dura e coesa. In qualsiasi buon manuale di politica commerciale si afferma che di fronte a misure protezionistiche ingiustificate e vessatorie è legittimo e doveroso reagire, anche per poi negoziare. La Commissione europea deve dunque approntare dei propri dazi e altre misure restrittive in risposta alle iniziative americane. D’altra parte, soltanto la minaccia di una ritorsione dura anche se appropriata può spingere l’Amministrazione americana ad aprire un negoziato, all’insegna del do ut des, che ha finora rifiutato. E se l’Unione resterà compatta – un dato peraltro non scontato – la sua forza commerciale sarà tale da essere in grado di contrastare l’aggressività di Washington.
La difesa del sistema aperto e il completamento del Mercato interno
La seconda strada da seguire è rafforzare e ampliare la rete di accordi commerciali dell’Unione diversificando ulteriormente i partner che ne fanno parte. Un accordo transattivo con l’amministrazione statunitense non può essere in effetti sufficiente, per quanto resti importante per cercare di evitare una guerra dei dazi che, oltre a punire chi la scatena (stagflazione) – come insegna la storia –, finisce per danneggiare tutti. Proprio perché così aperta, l’Europa deve continuare a espandere e consolidare la rete di accordi bilaterali, regionali e multilaterali costruita in questi anni. Va così rafforzata la cooperazione commerciale sia, ad esempio, con i grandi paesi dell’Asia del Pacifico, colpiti da dazi ancor più pesanti di quelli europei, sia con economie emergenti come India, Indonesia e Brasile, che hanno ormai assunto un ruolo chiave e condividono l’interesse a mantenere un sistema commerciale aperto e regolato. Al riguardo, l’accordo con i paesi del Mercosur in America Latina andrebbe ratificato al più presto dal Consiglio europeo, e il voto dell’Italia – va ricordato – sarà determinante.
Per quanto gli Stati Uniti restino un mercato fondamentale, essi rappresentano ormai solo il 13% delle importazioni mondiali: si apre così per l’Europa un ampio spazio per diversificare i suoi legami commerciali e sostenere un sistema internazionale aperto e regolato. È un percorso, quest’ultimo, già avviato nei mesi scorsi dalla Commissione von der Leyen e che va proseguito con forza.
Infine, un terzo fronte di risposta, spesso trascurato ma cruciale, riguarda il mercato interno europeo. Le barriere commerciali tra i paesi membri sono ancora troppo elevate: secondo il FMI, equivalgono in media a una tariffa del 44% per gli scambi di merci (agricoltura esclusa) e addirittura del 110% per quelli di servizi. Le cause sono molteplici, come la presenza di regimi nazionali frammentati in settori chiave quali, ad esempio, gli appalti pubblici. Una conseguenza è che il commercio intraeuropeo è oggi meno della metà di quello all’interno degli Stati Uniti.
Eliminare questi ostacoli e completare l’integrazione del Mercato interno non solo rafforzerebbe la coesione economica dell’Unione, ma rappresenterebbe anche un’occasione per rilanciare la domanda interna e la crescita europee, con più consumi e investimenti. Finora le forti resistenze di alcuni Paesi membri hanno impedito una maggiore integrazione. L’offensiva di Trump potrebbe forse convincerli ad agire diversamente.
Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali e ordinario di economia presso l'Università degli studi di Roma La Sapienza.