La guerra civile in Sudan

La regione sudanese del Darfur sta affrontando un crescente rischio di genocidio, mentre l’attenzione del mondo è concentrata sui conflitti in Ucraina e Palestina. L’esercito sudanese sta combattendo contro le forze paramilitari di supporto rapido (RSF) da più di un anno, in una guerra civile che ha già ucciso centinaia di migliaia di persone e costretto milioni di persone ad abbandonare le proprie case

Storia e ragioni della guerra civile in Sudan

Il Paese subsahariano ha già visto diverse guerre civili dalla sua indipendenza nel 1956 e la regione del Darfur sud-occidentale ha già assistito a un genocidio nei confronti delle comunità di etnia africana (come i Fur, i Masalit e gli Zaghawa) nel 2003. Nonostante il sud del Paese sia a prevalenza cristiana e animista, il Darfur è abitato per lo più da musulmani di etnia araba come la regione settentrionale, centrata sulla capitale Khartoum. Durante i suoi trent’anni di regime, Omar Al-Bashir ha sfruttato la frammentazione della regione sud-occidentale per creare un governo con una forte componente islamica

Nel marzo 2009, la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per il presidente sudanese Omar al-Bashir per aver diretto una campagna di uccisioni di massa, stupri e saccheggi contro i civili nel Darfur. Durante la guerra del 2003, solo nel Darfur, quasi 400.000 persone sono state uccise, le donne sono state sistematicamente violentate e quasi 3 milioni di persone sono state sfollate a causa di queste azioni. All’epoca le forze impiegate nella guerra civile nella regione sud-occidentale erano chiamate “Janjaweed” ed erano sotto il controllo del presidente al-Bashir e del comandante Mohammed Hamdan Dagalo, conosciuto come “Hemedti”. Oggi quelle stesse forze sono chiamate Forze di Supporto Rapido (RSF) e sono diventate sempre più indipendenti e forti rispetto all’esercito ufficiale grazie alla guida di Hemedti e il supporto finanziario di Paesi interessati nel conflitto civile. 

Ciò che è successo nella regione del Darfur quasi vent’anni fa è importante per conoscere i protagonisti e le ragioni del conflitto civile attuale, che da oltre un anno sta piegando la popolazione sudanese. Nel 2019, Hemedti e il capo delle forze armate sudanesi (Sudanese Armed Forces, SAF), Abdel Fattah al-Burhan, hanno sfruttato le proteste civili contro il governo per destituire al-Bashir. Dopo due anni di governo per la transizione democratica, i due generali hanno organizzato un colpo di stato militare e cacciato il primo ministro. Se fino al 2021 Hemedti e al-Burhan avevano combattuto dalla stessa parte, oggi si trovano uno contro l’altro. Dal 15 aprile dello scorso anno, infatti, i due eserciti hanno attaccato le reciproche basi in Khartoum e combattuto per la presa del palazzo presidenziale, dell’aeroporto e dei canali televisivi. All’apparenza ciò che ha rotto l’amicizia e scatenato la guerra è un disaccordo sulle tempistiche per l’integrazione delle RSF nell’esercito sudanese, ma gli interessi dietro questa guerra che si protrae da oltre un anno e di cui si sente parlare così poco sono molti e diversi. 

Interessi stranieri: perché può essere definita una Proxy War dei Paesi medio orientali?

Nonostante si parli di un conflitto civile interno al Paese, gli interessi in gioco hanno carattere internazionale, in particolare medio-orientale. Infatti, per tanti Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo il Paese subsahariano rappresenta un trampolino di lancio dalla Penisola Arabica all’Africa.

Gli Emirati Arabi Uniti (UAE) sono l’attore straniero che ha maggiormente investito nella guerra in Sudan, in particolare nel sostegno diretto e a tutto campo alle RSF. Abu Dhabi è il principale importatore di oro del Sudan e ha piani multimiliardari per sviluppare porti lungo la costa sudanese del Mar Rosso. Per gli Emirati Khartum è fondamentale per il raggiungimento della propria egemonia politica ed economica in Africa e in Medio Oriente, e perciò già nel 2019 Abu Dhabi aveva sostenuto l’RSF in Sudan per minare la transizione democratica e proteggere i propri interessi. 

L’altro Paese che ha contribuito al sabotaggio della transizione democratica nel 2019 ma che appoggia le forze di al-Barhum, è l’Egitto. Il Cairo, infatti, considera l’esercito sudanese l’unico esercito legittimo, con cui ha un accordo di società militare dal 2021, e necessita  dell’appoggio del Sudan per mantenere influenza nella regione e vincere la lunga disputa con l’Etiopia per la Grande Diga del Rinascimento Etiopia (Grand Ethiopian Renaissance Dam – GERD). Nonostante ciò, per l’Egitto il prolungamento del conflitto in Sudan, significa avere un altro vicino in guerra, oltre alla Libia e ad Israele, e dunque un’ulteriore crisi umanitaria che si riversa sui suoi confini. 

Tornando ai Paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo, l’altro grande protagonista è l’Arabia Saudita. Da aprile dello scorso anno l’Arabia Saudita ha svolto un ruolo di equilibrio in Sudan, ospitando i colloqui SAF-RSF a Gedda a maggio 2023, purtroppo falliti. Tuttavia, poiché al-Burhan gode di una maggiore legittimità internazionale, il Regno si è orientato a sostenere al-Burhan rispetto a Hemedti, scontrandosi così, come in Yemen, con Abu Dhabi. I due Paesi del Golfo in Sudan competono in tre settori diversi: da quello economico con gli investimenti nei terreni agricoli, nelle miniere e nelle infrastrutture; quello diplomatico, attraverso il quale le monarchie mirano a costruire un’influenza locale a sostegno dei negoziati e della diplomazia umanitaria; e, infine, quello geostrategico che ha portato all’allineamento con le fazioni rivali (Abu Dhabi con Hemedti e Ryhad con al-Barhum) molto prima dello scoppio del conflitto. 

Inoltre, recentemente sono state trovate prove del coinvolgimento dell’Iran nella guerra sudanese. Il governo sudanese sembra abbia ripreso le relazioni con Teheran dopo la loro rottura nel 2016 quando si erano accentuate le tensioni tra Arabia Saudita e Iran. Teheran è sempre più isolata nella propria regione e potrebbe avere interessi geopolitici ed economici ad espandere la propria influenza in Sudan, come l’accesso al Mar Rosso. 

Scarsi sforzi diplomatici per la risoluzione del conflitto

Nonostante questo conflitto abbia già causato la più grande crisi di sfollati al mondo, oltre 9 milioni  di cui 6,7 milioni interni, e messo a rischio di fame oltre 18 milioni di persone, a livello internazionale ha ricevuto scarsa attenzione politica, diplomatica e mediatica. 

L’8 marzo di quest’anno, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione redatta dal Regno Unito che chiede l’immediata cessazione delle ostilità durante il mese di Ramadan. Purtroppo però, il conflitto in Sudan non ha una storia di rispetto del mese di Ramadan: l’attuale guerra, infatti, è iniziata durante il mese sacro, il 15 aprile 2023, e i manifestanti pacifici sono stati brutalmente dispersi a Khartoum, sempre durante le festività del Ramadan, il 3 giugno 2019.

Mentre i due eserciti continuano ad annientarsi a vicenda commettendo crimini di guerra, atrocità e crimini contro l’umanità, le prospettive di pace sembrano nulle.  L’Unione Africana ha creato un Gruppo di alto livello sul Sudan (HLP-Sudan), mentre gli Stati Uniti hanno nominato un apposito inviato speciale, Tom Perriello, il quale ha proposto di rivisitare la piattaforma di Gedda. Tuttavia, coloro che davvero possono fare la differenza sono i Paesi della Penisola Arabica, i quali, come detto, non sembrano aver alcun interesse nella risoluzione del conflitto e nella transizione democratica del Paese subsahariano. 

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