I tre obiettivi centrati da Netanyahu

Nell’arco di 24 ore, Israele ha attaccato Beirut, uccidendo Fuad Shukr, uno dei leader militari di Hezbollah. Nella stessa notte è stato assassinato il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. L’assassinio mirato è avvenuto a Teheran, dove Haniyeh era in visita per la cerimonia d’inaugurazione del nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Dall’aprile scorso, quando il mondo ha tenuto il fiato sospeso nel botta e risposta di missili tra Tel Aviv e Teheran, la minaccia di una deflagrazione regionale non è mai stata così alta.

Per il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è stato un triplo scacco militare. Nell’arco di poche ore, Israele ha colpito la leadership di Hamas, quella di Hezbollah e, indirettamente, ha umiliato l’Iran, che ha subito lo smacco di un assassinio mirato in casa propria proprio durante la cerimonia di inaugurazione del suo nuovo presidente. In teoria, quella di Israele è stata una ritorsione all’attacco di Hezbollah nei territori occupati delle alture del Golan; in pratica, il governo israeliano ha centrato tre obiettivi.

Il primo riguarda Gaza. L’assassinio di Haniyeh contribuisce alla narrazione israeliana secondo cui la guerra a Gaza non è stata un fallimento. Il famigerato sradicamento di Hamas non è all’orizzonte e anche le forze armate israeliane lo riconoscono. Né appare realistica la liberazione degli ostaggi, ostacolata in primis proprio dalla riluttanza di Netanyahu di siglare un accordo con Hamas. La reputazione di Israele nel mondo è precipitata, con la catastrofe umanitaria causata da Israele che gli è valsa non solo accuse di crimini di guerra e contro l’umanità, ma che potrebbe vedere lo Stato ebraico condannato per genocidio dalla Corte internazionale di giustizia tra qualche anno. Mai Israele è stata così isolata nel mondo come lo è oggi. L’assassinio di Haniyeh (e,seppur non confermato da Hamas, anche quello di Mohammed Deif, leader militare nella Striscia) può essere quanto meno presentato come un parziale raggiungimento degli obiettivi militari di Israele. Tuttavia, renderà ancora più ardua la via di un negoziato per un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, gestita in buona parte da Haniyeh per conto di Hamas. Inoltre, la sua eliminazione non intaccherà Hamas come forza politica e militare: decine sono i leader del gruppo assassinati da Israele nel corso degli anni, a partire dallo storico capo del movimento islamista Ahmed Yassin, ucciso da Israele nel 2004. Quanto meno Israele potrà esibire la testa di Haniyeh come un trofeo, soprattutto ora che l’invasione di Gaza sta raggiungendo il capolinea in termini di risultati militari conseguibili.

Il secondo obiettivo è regionale. Dalla fine dello scorso anno, con l’intensità dell’invasione di Gaza destinata a diminuire e con Netanyahu che ha bisogno della guerra per evitare le urne e sostenere il suo governo, Israele ha tentato l’escalation regionale. Questo sforzo si è concentrato principalmente in Libano, ma anche direttamente nei confronti dell’Iran, come dimostra l’eclatante attacco al consolato iraniano a Damasco in primavera. L’obiettivo militare è quello di respingere Hezbollah al nord del fiume Litani, ristabilendo così una maggiore calma nel nord di Israele. L’obiettivo politico è rovesciare gli equilibri nella regione, trascinando gli Stati Uniti in una guerra contro l’Iran a sostegno di Israele. Per ora, l’escalation regionale è stata evitata, in buona parte perché Teheran non è interessata a una guerra regionale, ma anche perché l’amministrazione Biden, seppur penosamente passiva rispetto alla catastrofe umanitaria a Gaza, ha adottato fermezza nei confronti di Israele rispetto a una guerra regionale. Ma non è detto che questo equilibrio regga: la risposta iraniana (e delle milizie filo-iraniane) all’assassinio di Haniyeh a Teheran potrebbe avvenire in qualunque momento. Non ne conosciamo ora né l’entità né, soprattutto, sappiamo quale sarà la reazione israeliana e quella americana.

Qui entra il gioco il terzo obiettivo, che potrebbe spiegare ancor più dei primi due la tempistica di questi attacchi: gli Stati Uniti sono in campagna elettorale, in una corsa presidenziale che fino a un paio di settimane fa sembrava quasi decisa, con il vantaggio netto del candidato repubblicano Donald Trump sul presidente Joe Biden. Con il passo indietro di Biden e quello in avanti della sua vice, Kamala Harris, che verrà incoronata a fine mese come candidata del Partito democratico alla Casa Bianca, la partita elettorale si è riaperta. Questa non è stata una buona notizia per Netanyahu, che vede in Trump un lasciapassare per uno scontro più diretto con l’Iran e in Harris un partner quanto meno più ostico rispetto a Biden. Harris si è espressa infatti in modo infinitamente più chiaro rispetto alla necessità di un cessate il fuoco a Gaza. Netanyahu prevede così una campagna elettorale, in cui la candidata democratica cercherà il più possibile di evitare uno scontro aperto con Israele, ma che, così facendo, potrebbe trascinare gli Stati Uniti in guerra in Medio Oriente, rafforzando Trump.

Per Netanyahu la traiettoria dell’escalation è un win-win-win. L’unico modo per fermarlo, e sperare in una ritorsione limitata dell’Iran, è chiarire immediatamente che quando è troppo è troppo e che, perseguendo questa traiettoria, Israele si ritroverà sola.

Ultime pubblicazioni