“Infantile” e “superficiale”: così la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha recentemente bollato l’idea che l’Italia sia chiamata a compiere una scelta tra gli Stati Uniti di Donald Trump e l’Europa. Al contrario, secondo Meloni, mantenere un fronte euroatlantico unito e solido sarebbe “nell’interesse di tutti”. In quest’ottica, la presidente del consiglio ha rimarcato a più riprese la propria disponibilità a “evitare uno scontro” e a “costruire ponti” tra le due sponde dell’Atlantico.
Alla base degli sforzi di Meloni per evitare un disallineamento tra Washington e Bruxelles c’è il desiderio di preservare l’architettura complessiva della politica estera italiana. Dal 1945 a oggi, il rapporto con gli Stati Uniti – a garanzia anzitutto della sicurezza del paese – e quello con gli alleati europei – volano dello sviluppo economico, sociale e civile – hanno rappresentato le due direttrici fondamentali della politica estera di Roma. Nei primi due anni del suo governo, Meloni aveva potuto beneficiare di una ritrovata convergenza tra Washington e Bruxelles sotto l’amministrazione di Joe Biden, non a caso da alcuni vista in prospettiva come “l’ultima presidenza atlantista”. Il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca ha molto rapidamente portato a forti tensioni transatlantiche ad ampio spettro: dalle rimostranze Usa per il gap nelle spese per la difesa all’annuncio dell’introduzione di dazi doganali sulle importazioni dall’Europa, dalle dichiarazioni aggressive del neopresidente sulla Groenlandia sino alla gestione unilaterale da parte di Washington del cruciale dossier ucraino.
I nuovi scenari aperti dalla Presidenza Trump pongono un dilemma al governo di Giorgia Meloni. Da un lato, motivazioni di carattere strategico ed economico impongono di mantenere un ancoraggio saldo ai partner europei e a Bruxelles. Dall’altro, affinità ideologiche ma anche la concorrenza politica all’interno del governo italiano da parte di Matteo Salvini – lesto a schierarsi con Washington sui vari dossier – spingono a evitare una frattura con Washington. Di fronte all’impossibilità di prendere nettamente una posizione, quella di cercare di ergersi a pontiera tra le due sponde dell’atlantico è per Meloni in un certo senso un’aspirazione forzata – ma non per questo necessariamente realistica.
Il “radicalismo pragmatico” di Meloni…
Fino all’insediamento di Trump, l’investimento politico di Meloni su un ruolo da interlocutore privilegiato con Washington sembrava una scommessa potenzialmente vincente. A gennaio, la presidente del consiglio era stata l’unico capo di governo dell’UE a essere invitata alla cerimonia di insediamento a Capitol Hill – una visita presentata come un successo in Italia e in Europa.
La popolarità di Meloni a Washington non dovrebbe sorprendere. Nei suoi primi due anni di governo, la presidente del consiglio ha saputo dosare con maestria moderazione e prese di posizione più radicali, assurgendo in qualche modo a nuovo modello globale per la destra al potere.
In Italia, la premier si è destreggiata abilmente tra le critiche dei progressisti che l’avevano dipinta come fascista e come un pericolo per l’Europa. La comunicazione di Meloni ha valorizzato i suoi tratti distintivi: quelli di una madre che si è fatta da sé e che lavora sodo e di primo ministro donna che ha cura della propria immagine, marcando così una netta rottura con la schiera di leader italiani tutta al maschile (a prescindere dal colore politico) degli ultimi ottant’anni.
Giorgia Meloni ha adottato un approccio più assertivo o dialogante, a seconda delle circostanze. Nei rapporti con i leader internazionali, è rimasta fedele al tradizionale posizionamento euroatlantico dell’Italia, membro fondatore dell’Ue e della Nato. Rivolgendosi al suo elettorato, invece, la presidente del consiglio ha lasciato intendere di ispirarsi a una visione di fondo nazionalista e a un approccio transazionale al multilateralismo e alla politica mondiale. “L’Italia farà sentire con forza la sua voce [in Europa], come si conviene a una grande nazione fondatrice”, ha affermato Meloni nel suo primo discorso da Primo Ministro al Parlamento italiano.
La politica estera del governo Meloni prende le mosse da una precisa gerarchia di principi. Gli interessi vengono prima dei valori, l’interesse nazionale prima dell’integrazione europea e dei fora multilaterali, le relazioni personali prima dei canali istituzionali, la crescita economica prima degli obiettivi climatici. Gli accordi a breve termine, che possono essere fonte di consenso a livello interno, sono prioritari rispetto alle soluzioni a lungo termine. Questa dinamica è stata sintetizzata ricorrendo al concetto piuttosto fumoso di “pragmatismo”, che significa tutto e il contrario di tutto. È una ricetta che non offre risposte globali e di ampio respiro, ma che funziona benissimo per restare al potere. Non a caso, a differenza di Emmanuel Macron e Olaf Scholz, Giorgia Meloni è stata uno dei pochi leader dell’UE il cui partito ha aumentato i propri voti nelle elezioni europee del 2024. Nei mesi immediatamente successivi, lo standing internazionale di Meloni è sembrato essere cresciuto a tal punto da venire definita da Politico “la persona più influente in Europa “.
Il “radicalismo pragmatico” di Meloni sta avendo una certa risonanza anche all’estero, all’interno di quel network globale che sta rapidamente prendendo forma tra i leader di destra radicale al governo. I politici della destra al potere non sono solo ideologicamente vicini tra loro, ma stanno anche imparando l’uno dall’altra le migliori pratiche per rimanere in sella. Giorgia Meloni può senz’altro offrire alla destra globale ispirazione in termini di leadership e pratiche di governo. Ma in un mondo in cui il mero perseguimento degli interessi nazionali diventa la regola, il conto da pagare per l’Italia potrebbe essere salato.
… e i mali strutturali dell’Italia
In un certo senso, Meloni potrebbe essere tentata di fare il passo più lungo della gamba. Infatti, il paese di cui è presidente del consiglio deve fare i conti con una serie di problemi strutturali che, lungi dall’essere colpa solo di questo o quel governo, risalgono ad almeno tre decenni fa e saranno destinati ad aggravarsi nei prossimi anni. Il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano era stimato a oltre il 136% a fine 2024, il secondo più elevato di tutta l’Ue, e si prevede che sia destinato ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro. La crescita economica del Paese è fiacca – stimata allo 0,8% nel 2025 – e, soprattutto, trainata dai massicci investimenti (per un totale di 194,4 miliardi di euro) previsti dal piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Ue, che tuttavia si concluderà nel 2026. In una prospettiva a più lungo termine, le tendenze demografiche pongono vincoli sostanziali all’economia del Paese: l’invecchiamento della popolazione richiederà una spesa pubblica crescente sia per le pensioni che per la sanità per almeno in prossimi dieci-quindici anni. Di conseguenza, a causa degli scarsi margini di manovra a livello di bilancio, Roma dovrà necessariamente mantenere un dialogo costruttivo con Bruxelles e i partner europei, cercando forme di investimento e di sostegno finanziario a livello comunitario.
Il governo italiano deve fare gioco forza i conti con limiti strutturali alle proprie capacità d’azione non solo a livello macroeconomico, ma anche – in qualche modo conseguentemente – in ambito diplomatico e di sicurezza. Rispetto a Francia, Germania e Regno Unito, la rete diplomatica italiana dispone di meno sedi all’estero, meno personale e dotazioni finanziarie inferiori. La carenza di personale, in particolare, riduce il tempo e l’attenzione che è possibile dedicare ai singoli dossier di politica estera, rendendo difficile tradurre le grandi visioni delineate dai vertici politici in una strategia completa e concretamente perseguibile.
In maniera analoga, sulla base dei dati della Nato, la spesa per la difesa dell’Italia in percentuale sul PIL si attestava all’1,49 per cento nel 2024, un dato molto più basso del 2,33 per cento del Regno Unito, del 2,12 per cento della Germania e del 2,06 per cento della Francia. Le difficoltà italiane a raggiungere la soglia del 2% di spesa per la difesa stabilita a livello Nato oltre dieci anni fa mette il Paese in una posizione difficile nei confronti degli alleati transatlantici – tanto più che la nuova amministrazione statunitense ha già lanciato chiari segnali riguardo a una possibile revisione al rialzo degli impegni degli alleati in materia di sicurezza collettiva.
Trumpismo o multilateralismo: una scelta ineludibile
Se in un primo momento si era ipotizzato che il nostro paese potesse trarre qualche beneficio di breve termine dalle affinità ideologiche tra Meloni e Trump, l’annuncio da parte dell’amministrazione statunitense di pesanti dazi verso l’Unione europea a inizio aprile è stata una doccia fredda per Roma. Con ogni probabilità il governo italiano proseguirà nei suoi sforzi per mantenere aperto un dialogo con Washington; in questo senso, la probabile visita del vicepresidente JD Vance in Italia a fine aprile potrebbe rappresentare un’occasione per tentare di rimettere l’Italia al centro dei rapporti transatlantici. Data la complessità dello scenario globale e il massimalismo delle posizioni dell’amministrazione Trump, tuttavia, quella di fare da pontieri appare un’impresa assai ardua per Roma. Se le aperture verso Washington dovessero poi finire per tradursi in un allineamento di stampo ideologico alle prese di posizione radicali contro l’unità europea e il sistema multilaterale della nuova amministrazione Usa, ciò, anziché “far tornare grande l’Italia”, farebbe più male che bene al nostro paese.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia è stata tra i più convinti sostenitori del multilateralismo nelle sue varie manifestazioni, e non per caso. Attraverso il proprio supporto all’azione delle Nazioni Unite e al processo di integrazione dell’Ue, i governi italiani hanno sostenuto – e fatto leva – sulle istituzioni multilaterali e sull’integrazione europea per rafforzare il prestigio del Paese e temperare i suoi problemi strutturali, giustificando attraverso questo attivismo un certo livello di freeriding su beni comuni globali come la sicurezza collettiva all’interno della Nato.
Nel momento in cui Washington sembra recedere dai suoi impegni globali a favore di una concezione smaccatamente transazionale e incentrata sulla forza delle relazioni internazionali, altri Paesi sono chiamati ad assumersi la loro parte di responsabilità. Per i Paesi europei, ciò significa per l’appunto difendere quei beni comuni – tra cui la sicurezza collettiva – che hanno garantito la loro prosperità postbellica e i loro valori.
In questo scenario, Meloni si sta destreggiando in complicati equilibrismi. Restia a schierarsi apertamente, la presidente del consiglio invoca l’unità dell’Occidente all’interno del quadro atlantico e auspica summit congiunti tra Washington e l’Europa. Ma di fronte a una crisi di sicurezza senza precedenti che incombe sul continente europeo, questi appelli suonano vuoti. La titubanza di Meloni è già stata sottolineata dal presidente francese Macron, che ha espresso il suo auspicio di vedere “un’Italia forte che agisca a fianco della Francia, della Germania, nel concerto delle grandi nazioni”, richiamando esplicitamente l’esempio dell’ex premier Mario Draghi.
L’unilateralismo e il disprezzo per l’Europa dell’amministrazione Trump stanno squarciando il velo del “radicalismo pragmatico” di Meloni, costringendo la premier a mostrare le sue vere intenzioni. Mentre il legame transatlantico è ai minimi storici e il destino dell’Ucraina appare incerto, la presidente del Consiglio è chiamata a una scelta: cercare un confronto con Washington a vantaggio dell’Europa, o scommettere sulla sua vicinanza ideologica alla destra radicale statunitense, minacciando la coesione dell’Ue; rafforzare il suo status di stella della destra radicale globale o riconoscere che l’Italia ha parecchio da perdere da un (dis)ordine globale basato solo sulla forza. Si tratta, in fondo, anche di una scelta tra la presidente del Consiglio e l’Italia: accreditarsi come leader di fiducia di Washington in Europa o privilegiare l’interesse strategico del suo Paese. Una scelta ardua per chi considera nazione e patria come valori fondamentali.