di Matteo Bertasio
Il 20 gennaio scorso, durante il suo secondo discorso d’inaugurazione alla Casa Bianca, Donald Trump ha elogiato le restrizioni al commercio come strumento in grado di arricchire i cittadini statunitensi. L’approccio della prima amministrazione Trump, mirato principalmente alla protezione delle aziende statunitensi dalla competizione cinese, è un ricordo del passato. Oggi, la questione sembra essere molto più orientata alla tutela delle grandi multinazionali oltreoceano a discapito soprattutto dell’Unione Europea.
In un contesto in cui sicurezza economica e sicurezza internazionale si intrecciano, le nazioni europee si dividono tra chi intende sottostare alle decisioni della nuova amministrazione statunitense e chi invece vorrebbe una reazione decisa e comunitaria. La risposta dei funzionari Ue finora è stata di apertura alle trattative, anche se molteplici preoccupazioni sui valori fondanti dell’Unione scuotono l’opinione di esperti e dei politici.
Tariffe commerciali: armi a doppio taglio
Dal 2020, la crisi del commercio internazionale ha visto la maggior parte delle nazioni aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio violare gli accordi di riduzione multilaterale delle tariffe, mentre l’organo d’appello legale dell’OMC ha cessato le proprie attività. Da allora, il mondo ha assistito ad un graduale aumento delle tariffe su beni di importazione ed esportazione.
I dazi sui prodotti esteri avvantaggiano le aziende locali a discapito dei competitor stranieri, portando a un aumento delle rendite statali e consentendo alle aziende locali di aumentare prezzi, profitti e stipendi. Ciò porta a uno sviluppo mirato di un settore specifico dell’economia a discapito di un generale aumento dei prezzi che danneggia gli stipendi reali dei consumatori.
Gli effetti collaterali sono significativi, a partire dalla distruzione delle catene di valore globale (GVC), ovvero le diverse fasi di produzione di beni complessi, specialmente ad alta intensità tecnologica, distribuite tra vari paesi. L’imposizione di tariffe aumenta il costo finale del prodotto ad ogni fase della produzione, generando un’inflazione esponenzialmente più alta che per il singolo prodotto domestico soggetto alla tassazione locale.
Non solo i dazi, ma la sola minaccia di una loro imposizione può essere devastante per l’economia. Quando un politico promette protezione attraverso tariffe universali, le aziende che dipendono dalle importazioni riducono gli investimenti per la produttività, causando un rallentamento delle attività produttive. È quanto avvenne all’annuncio della prima Trade War di Trump contro la Cina nel 2018, che portò a una caduta dello stock market statunitense del 12% in appena 11 giorni.
Per questo motivo, a partire dagli anni Novanta, molte nazioni si sono accordate per ridurre in modo multilaterale le tariffe sui prodotti istituendo l’Organizzazione Mondiale del Commercio. L’UE, che rappresenta l’alleanza commerciale più profonda al mondo con la sua zero-tariff policy interna, si trova ora a non poter più sostenere unilateralmente il ruolo di difensore del libero commercio, schiacciata tra le politiche restrittive di Stati Uniti e Cina.
L’offensiva di Trump: un attacco su tre fronti
Il 14 febbraio il vicepresidente JD Vance ha tenuto un duro discorso alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, accusando i paesi dell’Ue di limitare la libertà di parola attraverso restrizioni agli oppositori politici sui principali social network statunitensi. Il tema del free speech è utilizzato dall’amministrazione Trump come arma per difendere le multinazionali statunitensi da tempo in conflitto con l’Unione Europea, soprattutto dopo l’approvazione del Digital Markets and Digital Services Act e della tassazione universale sui profitti delle grandi aziende al 15%.
L’amministrazione Trump ha annunciato fin dai primi giorni di volersi dissociare dalla proposta, e il 21 febbraio ha dichiarato di aver richiesto un’interrogazione al Tesoro per quantificare i danni economici provocati dall’Ue alle big tech statunitensi per imporre delle “digital tariffs”, di cui ancora non si conosce il valore effettivo. L’avvicinamento dei CEO delle big tech statunitensi al governo Trump, quali Mark Zuckemberg (Meta) e Sundar Pichai (Google), potrebbe dunque essere un segnale che l’amministrazione Trump è pronta a difendere le loro cause contro l’Ue. Le “digital tariffs”, dunque, appaiono come uno strumento di ritorsione con il fine di minare le multe impendenti da parte dell’antitrust a tutela dei consumatori europei in casi quali la concorrenza sleale di Google Shopping o la più recente violazione delle piattaforme Meta del Digital Service Act.
Se l’Ue ha una bilancia commerciale negativa con gli Stati Uniti nel commercio dei servizi (tra i quali anche quelli digitali), questi ultimi sono invece in deficit per quanto riguarda l’import di beni fisici dall’Ue, tra cui spiccano le automobili. L’amministrazione Trump è corsa subito ai ripari, annunciando che ad aprile implementerà una tariffa universale del 25% sull’import di autoveicoli dall’Unione Europea. Questa mossa sembra aver dato grande fiducia al settore automobilistico di Detroit, mentre ha gettato nel panico i produttori principalmente tedeschi di auto europei come Volkswagen, BMW e Mercedes-Benz.
Le aziende europee, infatti, stanno già da tempo combattendo una duplice battaglia per abbattere sia i loro costi interni di produzione sia la competizione cinese, specialmente nel settore dell’elettrico. La battaglia ora rischia di aprirsi su un triplo fronte, che porterebbe i produttori di auto europei ad essere inevitabilmente accerchiati da Stati Uniti e Cina, lasciati senz’altra scelta se non quella di sottostare al diktat oltreoceano. Volkswagen ha già annunciato di aver ridotto del 25% la sua produttività in Europa negli ultimi mesi, ed ora annuncia l’apertura dei primi stabilimenti negli Stati Uniti. Il settore delle auto rappresenta la fonte di export più profittevole per l’Ue oltreoceano, e la perdita di tale vantaggio competitivo potrebbe portare ad effetti a catena su tutta l’economia comunitaria, a partire da una forte svalutazione dell’Euro nei confronti del dollaro.
L’ultimo fronte su cui si inaspra il conflitto commerciale US-UE è quello delle materie prime, da acciaio e alluminio a gas e petrolio. Trump ha annunciato fin da subito che ci sarebbero state ripercussioni per i paesi europei che si fossero rifiutati di importare materie prime dagli Stati Uniti. Sul fronte del gas naturale, l’Unione sembra aver accettato il diktat degli Stati Uniti. Il Commissario per l’Energia UE Jorgensen ha infatti annunciato il 21 febbraio di aver iniziato discussioni oltreoceano per l’aumento dell’import, soprattutto in virtù di un vertiginoso incremento dei prezzi nelle ultime settimane. Diverso è il fronte di acciaio e alluminio. US e Unione Europea sono infatti in conflitto aperto dal 2018 in questo campo, quando quest’ultima ha implementato misure di salvaguardia volte a tassare l’import dagli Stati Uniti a fronte di una protezione indiscriminata del settore da parte del primo governo Trump. Le manovre protettive europee sono in vigore tutt’oggi; perciò, Trump ha annunciato una tariffa su alluminio ed acciaio al 25% nel tentativo di far cadere la resistenza europea. L’Unione, in rappresentanza principalmente del secondo produttore mondiale ArcelorMittal, non sembra voler cedere sulle protezioni al momento.
Europa a un bivio
La battaglia commerciale che Trump ha promesso all’Unione Europea è destinata a cambiare radicalmente il rapporto tra le due potenze mondiali. Il Rappresentante per il Commercio Sefcovic il 20 Febbraio ha incontrato il corrispettivo statunitense, annunciando di aver ricevuto delle aperture da parte di quest’ultimo su una possibile riduzione delle tariffe. Tuttavia, le condizioni a cui queste esenzioni potrebbero essere concesse sono esse stesse oggetto di discussione, e potrebbero minare i valori fondamentali dell’Unione secondo la Commissaria Europea all’antitrust Teresa Ribeiro.
L’Europa è, in ultima analisi, responsabile del proprio destino, forzata a scegliere se accettare le richieste dell’amministrazione Trump, oppure unirsi ancor più profondamente in difesa dei valori comunitari.
Orizzonti Politici (o OriPo) è un think tank giovanile italiano impegnato nell’analisi di politica internazionale, politiche pubbliche ed economia.