A quattro settimane dall’Election Day del 5 novembre, la corsa 2024 alla Casa Bianca resta aperta, soprattutto per quanto riguarda i Grandi Elettori, che sono determinanti. Conta poco che, nei sondaggi nazionali, Kamala Harris appaia in leggero e crescente vantaggio su Donald Trump. Saranno decisivi gli Stati in bilico, dove i rapporti di forze tra Harris e Trump sono altalenanti, “così incerti da confondere le idee”, scrive sul New York Times Jess Bidgood.
Per vincere le elezioni bisogna conquistare almeno 270 Grandi Elettori su 538. Nei calcoli dei guru delle previsioni elettorali, Harris può contarne 226 sicuri o quasi e Trump 219. Restano i 93 degli Stati incerti: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin nella Rust Belt, North Carolina e Georgia nel Sud, Arizona e Nevada ad Ovest. Ad ogni area corrispondono realtà demografico-economiche molto diverse: ogni Stato è una campagna a sé.
Nel 2020, Joe Biden vinse in tutti gli Stati oggi in bilico, tranne che in North Carolina. E proprio lì la campagna repubblicana subisce i contraccolpi di uno scandalo politico-sessuale che coinvolge il candidato governatore Mark Robinson, un ‘trumpiano’ da cui Trump cerca ora di smarcarsi, dopo che la Cnn ha scovato sul sito porno Africa Nude suoi post in cui, anni fa, si definiva “nazista nero” e “pervertito”. Robinson non vuole fare un passo indietro, anche se Trump non lo vuole più accanto a sé sul palco dei comizi.
In un contesto di fibrillazione, s’intrecciano momenti propri di una campagna elettorale – il dibattito in tv del 10 settembre, vinto da Harris su Trump, e quello dell’1 ottobre, fra i due vice, Tim Walz e JD Vance – e momenti che non dovrebbero appartenerle, come il secondo fallito attentato a Trump, il 15 settembre, mentre giocava a golf nel suo club di West Palm Springs, in Florida.
Virulenze verbali e violenze fisiche s’intrecciano, in un Paese che resta spaccato e dove i toni sono apri, specie da parte di Trump e Vance. Nell’analisi di Foreign Affairs, che dedica al tema il suo ultimo numero, “lo stile violento della politica americana” è “il nostro peggiore nemico”: come a dire, il nemico “ce l’abbiamo in casa”, senza bisogno di andarlo a cercare altrove, in Cina o fra i migranti.
E le preoccupazioni per il destino della democrazia americana, specie se dovesse vincere Trump, che rivendica “un primo giorno da dittatore” alla Casa Bianca, si inquadrano bene nel rapporto dell’International Institute for Democracy and Electoral Assistance di Stoccolma: il 2023 ha visto un declino della democrazia nel mondo per l’ottavo anno consecutivo e il peggior declino, nell’ultimo mezzo secolo, in termini di credibilità delle elezioni e di potere dei parlamenti. Le cause sono diverse: intimidazioni governative, interferenze straniere, disinformazione e misinformazione e il maldestro o malevolo ricorso all’intelligenza artificiale. Il Global Report on the State of the Democracy misura dal 1975 lo stato di salute della democrazia in 158 Paesi. L’Istituto di Stoccolma nota che, negli ultimi cinque anni, il 47% dei Paesi ha visto declinare indicatori democratici chiave: un’elezione su tre, in media, è oggetto di contestazioni e l’esito di una su cinque viene deciso dopo ricorsi giudiziari. L’affluenza alle urne media è inoltre calata dal 65,2% nel 2008 al 55,5% nel 2023, in assoluto l’anno peggiore. Il segretario generale dell’Istituto svedese, Kevin Casas-Zamora, commenta: “Le elezioni restano lo strumento migliore per arrestare il declino della democrazia e per rovesciare l’onda a suo favore… Il successo della democrazia dipende da molti fattori, ma diventa pressoché impossibile se le elezioni sono un fallimento”.
Segnali inquietanti dalla campagna elettorale
Purtroppo, ci sono molte premesse perché le elezioni presidenziali del 5 novembre negli Stati Uniti non filino lisce: Trump ha già lasciato intendere che non accetterà una sconfitta e che contesterà l’esito del voto, se negativo, come fece nel 2020, fino all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 condotto da migliaia di facinorosi suoi sostenitori per indurre, o meglio costringere, il Congresso, riunito in plenaria, a ribaltare il verdetto delle urne.
Molti Stati hanno modificato le circoscrizioni elettorali, per favorire il partito localmente al potere – avviene ogni volta – e hanno preso misure per intralciare l’accesso alle urne delle minoranze. Il Nebraska ha addirittura provato, in extremis, a cambiare le regole del gioco per favorire Trump: il governatore dello Stato, Jim Pillen, ha rinunciato a convocare una sessione legislativa speciale all’uopo solo perché un senatore statale repubblicano, Mike McDonnell, s’è pronunciato contro, facendo venire meno la maggioranza necessaria dei due terzi. La campagna di Trump voleva allineare l’attribuzione dei Grandi Elettori del Nebraska al modello ‘winner takes all’ adottato da tutti i 50 Stati Usa tranne Nebraska e Maine. Con la modifica, Trump si sarebbe aggiudicato tutti e cinque i Grandi Elettori dello Stato; senza, uno andrà a Harris.
Su un solo fronte democratici e repubblicani hanno convenuto una tregua elettorale reciprocamente vantaggiosa: il Congresso ha definitivamente approvato – e il presidente Joe Biden lo ha firmato – una misura tampone di compromesso che finanzia la spesa pubblica fino al 20 dicembre. Il rischio di uno shutdown, cioè di una serrata di alcuni servizi federali, durante la campagna è così sventato. Ora, la minaccia aleggia sul Natale: a decidere sarà sempre l’attuale Congresso, perché quello che uscirà dal voto del 5 novembre s’insedierà solo a gennaio. Negli Stati Uniti, l’anno fiscale inizia il primo ottobre: a quella data, l’Amministrazione Biden, senza un’intesa nel Congresso, si sarebbe trovata nell’impossibilità di spendere. Lo speaker della Camera, Mike Johnson, repubblicano, ha così spiegato la disponibilità al compromesso: “Anche se questa non è la soluzione che preferiamo, è la strada più prudente da seguire… Come la storia ci insegna, e come dicono i sondaggi, una serrata a ridosso dalle elezioni sarebbe un atto di negligenza politica” (e sarebbe un boomerang per il partito che se ne assume la responsabilità).
In questo contesto, una sorpresa positiva è emersa dal dibattito tra i candidati alla vicepresidenza, Tim Walz, democratico, e JD Vance, repubblicano: un confronto informativo ad ampio spettro, senza toni particolarmente aggressivi da entrambe le parti. Il dibattito trasmesso in diretta televisiva sulla CBS probabilmente non sarà ricordato come il momento clou della corsa alla Casa Bianca, ma ha mostrato il volto buono della politica statunitense. Lo sottolinea, con un pizzico di ironia e una dose di sorpresa, il Washintgon Post nella sua analisi: “È stata una cosa notevolmente civile”. Jim Kessler, analista politico del think tank di centro-sinistra Third Way, spiega: “I dibattiti fra i candidati alla vicepresidenza non fanno vincere le elezioni, ma aiutano a creare o smontare un momento… Non si segnano gol, ma si fa possesso palla” – “You don’t score touchdowns, but you can gain yards or you can lose yards”, ha affermato in termini non calcistici, ma da football americano.
Vance, in giacca blu scuro e cravatta più rosa che rossa, e Walz, in giacca nera e cravatta blu d’ordinanza, si sono stretti la mano all’inizio del dibattito e, al termine, salutandosi, hanno mostrato una particolare cordialità, mentre le loro mogli salivano sul palco. Forse, tanto fair-play è stato favorito dal fatto che i due non erano lì per vendere se stessi e le loro idee, ma per fare da piazzisti dei loro rispettivi leader, Harris e Trump. In fin dei conti, erano due ‘sotto padrone’. Walz è partito lento, un po’ esitante, ma ha acquisito sicurezza e solidità con il passare dei minuti e con l’arrivo di temi a lui congeniali come l’aborto e la difesa della democrazia. Vance, invece, è apparso subito sicuro di sé e deciso nelle sue affermazioni, specialmente sui migranti, tema che, come fa sempre Trump, cercava di inserire in ogni risposta. Tuttavia, ha cercato anche di smussare le posizioni sull’aborto e di “riscrivere la storia” – espressione usata dal Washington Post – della presidenza Trump.
Un elettorato tendenzialmente bloccato sulle proprie posizioni
L’elettorato Usa sembra piuttosto bloccato – o barricato, visto il clima – sulle proprie posizioni: né le convention in estate, né il dibattito del 10 settembre vinto da Harris, né il secondo fallito attentato a Trump del 15 settembre hanno davvero inciso sui rapporti di forza fra i due candidati. Negli Stati in bilico la situazione è ballerina, con sorpassi e controsorpassi. La sensazione diffusa è che, a fare la differenza, possa essere la Pennsylvania.
Harris tende a consolidare e ad ampliare il suo vantaggio su Trump a livello nazionale. Ma ci sono sondaggi che danno Harris e Trump statisticamente pari – con distacchi, cioè, inferiori ai margini d’errore. La corsa, a giudizio quasi concorde degli analisti, resta estremamente serrata. Il magnate – scrivono i sondaggisti della Cnn, a commento dei dati da loro raccolti – ha uno zoccolo molto duro (e difficile da scalfire) di sostenitori, la vice-presidente conta su un forte appeal personale; Trump gode in genere di più credito sull’economia, Harris ottiene più fiducia sui diritti riproduttivi.
La candidata democratica batte sui tasti dov’è percepita più debole: l’immigrazione – dove il ‘giro di vite’ deciso in primavera dall’Amministrazione Biden sta funzionando – e l’economia. Se Trump la etichetta come “comunista”, lei risponde presentandosi come una “capitalista pragmatica e pro-business” e ottiene l’avallo di oltre 400 economisti ed esperti di politica economica, autori di una lettera aperta dove si dicono certi che la vice-presidente “lavorerà incessantemente per costruire un’economia forte e favorevole alla crescita per tutti gli americani”. Secondo i firmatari, invece, “le politiche proposte da Trump rischiano di riaccendere l’inflazione e minacciano la posizione globale degli Stati Uniti e la stabilità economica interna”. La lettera aperta recita: “Ricercatori imparziali prevedono che, se Trump metterà in atto la sua agenda, ciò ridurrà la crescita del Pil e aumenterà il tasso di disoccupazione”.
In tutto questo, una certezza pare però acquisita: nel 2028, Trump, che avrà 82 anni, non si ripresenterà. Lo ha detto lui stesso in un’intervista a Full Measure: “No, basta, non ci penserei proprio”. In caso di vittoria, Trump non potrebbe più ricandidarsi, avendo esercitato due mandati; se sconfitto, teoricamente potrebbe ancora farlo.
Uscendo dal cono d’ombra dov’era finito dopo il ritiro il 21 luglio – un periodo in cui faceva notizia solo quando veniva fotografato con un cappellino di Trum – il presidente Biden, intervistato dal talk show Abc The View, ha attaccato Trump, affermando che “non crede nella democrazia” e ribadendo la sua fiducia nel fatto che lo avrebbe battuto: “È un perdente, lo avrei sconfitto”.
Medio Oriente e Ucraina, il fattore guerra
Nell’ultima decade di settembre, la campagna, già condizionata dalle guerre in Medio Oriente e Ucraina, è stata parzialmente oscurata dal via vai di leader internazionali all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York.
La prolungata presenza negli Stati Uniti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha rimesso l’Ucraina, più che i conflitti di Israele, al centro dell’agenda elettorale e ha fatto emergere differenze e contrasti tra Harris e Trump. Giovedì 26 settembre, Zelensky è stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Biden e dalla sua vice Harris. Il giorno seguente, ha incontrato per la prima volta dal 2019 anche Trump alla Trump Tower di New York. Prima di questi incontri, Zelensky aveva visitato una fabbrica d’armi in Pennsylvania – circostanza che aveva molto irritato Trump –, parlato all’Assemblea generale, partecipato a un’iniziativa sull’Ucraina organizzata da Biden e svolto numerosi incontri bilaterali, incluso uno con la premier italiana Giorgia Meloni.
A tutti i suoi interlocutori, Zelensky ha presentato il suo “piano per la vittoria”. Biden ha reagito annunciando la convocazione, in ottobre, di un incontro d’alto livello in Germania con i 50 Paesi alleati dell’Ucraina. Per quanto riguarda le forniture belliche, Biden ha confermato un pacchetto di aiuti del valore di 8 miliardi di dollari, nell’ambito dei fondi già stanziati dal Congresso. Questo pacchetto include l’estensione dell’addestramento dei piloti ucraini sugli F-16, una nuova batteria anti-aerea Patriot coi suoi missili e missili a lungo raggio. Ma non c’è l’autorizzazione ad usarli contro obiettivi in territorio russo.
Centrale, però, in prospettiva elettorale, è stato lo scambio di battute a distanza tra Harris e Trump. Dopo l’incontro con Zelensky, parlando ai giornalisti fuori dal suo ufficio senza mai citare Trump, Harris ha detto: “Ci sono dei leader negli Stati Uniti che vogliono che l’Ucraina ceda una larga parte del suo territorio, accetti la neutralità e rinunci a rapporti di sicurezza con altri Stati… Sono proposte che non sono di pace ma di resa… Quei leader hanno la stessa posizione di Putin, il che è pericoloso e inaccettabile”.
“La mia strategia per l’Ucraina non è la resa”, ha replicato Trump. “Io voglio salvare vite umane”, ha poi aggiunto, ribadendo che con lui alla Casa Bianca “la guerra non ci sarebbe mai stata“. Ma, per giorni, l’ex presidente ha criticato Zelensky, che è “il più grande venditore della storia: quando viene qui, se ne va sempre via con 60 miliardi di dollari”; e che, inoltre, ha il difetto di tifare Harris –“Vuole tanto che vinca lei”. Per Trump, gli Usa “continuano a dare soldi a quest’uomo che si rifiuta di fare un accordo”. Il ritornello del magnate è che, quando lui era presidente, gli altri leader lo chiamavano per chiedergli “se potevano o meno entrare in guerra”.
Meno marcate le distanze tra Harris e Trump sul Medio Oriente: sì al diritto alla difesa di Israele, ma inviti alla moderazione e impegno a sventare un allargamento del conflitto. Persino Trump riconosce che ora “bisogna finirla in un modo o nell’altro”, perché “a un certo punto il mondo non lo accetterà più” e la guerra deflagrerà. Salvo naturalmente aggiungere che “il 7 ottobre, con me, non sarebbe mai successo”.
Trump, in pace con la giustizia, non con le donne
Trump è ormai in pace con la giustizia: i tre procedimenti federali aperti contro di lui a Washington, in Georgia e in Florida non partiranno di sicuro prima del 5 novembre e il verdetto del processo dove è già stato riconosciuto colpevole a New York sarà pronunciato dopo le elezioni. Invece, continua ad avere problemi con le donne, cioè con l’elettorato femminile, complice anche il suo vice, che non lo aiuta su quel fronte.
Già in difficoltà sul tema dell’aborto, il magnate se l’è andata a cercare quando, in un comizio, si è auto-proclamato “il protettore delle donne”: “Non avrete più l’ansia per tutti i problemi che ci sono nel nostro Paese. Sarete protette e io sarò il vostro protettore…Non penserete più all’aborto… Non sarete più abbandonate, sole o spaventate… Non sarete più in pericolo…”.
Diverse organizzazioni per i diritti delle donne hanno contestato le dichiarazioni dell’ex presidente definendole “viscide e inquietanti”. L’associazione bipartisan The Seneca Project, ad esempio, ricorda che Trump “è un predatore sessuale ed è un mostro che ci ha strappato il diritto di decidere dei nostri corpi”. Molti account pubblicano la clip della dichiarazione insieme al sonoro del 2016, dove il magnate afferma, in modo volgare, di “potere disporre delle donne” come gli pare.
Hillary mette in guardia Kamala dalla sorpresa di ottobre
In una campagna straordinariamente ricca di colpi di scena, le sorprese potrebbero non essere finite. Hillary Clinton mette in guardia i democratici, in particolare Harris, da “una sorpresa d’ottobre” che potrebbe danneggiarne la corsa alla Casa Bianca, senza però specificare di cosa si tratti (del resto, altrimenti, che sorpresa sarebbe?).
La “sorpresa d’ottobre” è un mostro di LochNess delle elezioni statunitensi: se ne parla sempre, da quando nel 1864 una vittoria degli unionisti contro i confederati nella Guerra civile risultò decisiva per la rielezione di Abraham Lincoln, ma la si vede raramente.
Tuttavia, alcune elezioni presidenziali hanno effettivamente registrato eventi significativi nel mese di ottobre, dando origine al termine ‘October Surprise’. Nell’ottobre del 1980, Jimmy Carter non riuscì a indurre l’Iran a liberare gli ostaggi sequestrati nell’ambasciata americana di Teheran – furono ‘restituiti’ solo a gennaio del 1981, in coincidenza con l’insediamento alla Casa Bianca di Ronald Reagan. Nel 2016, Hillary fu effettivamente danneggiata dalla strampalata decisione del direttore dell’Fbi Bill Comey di riaprire il caso delle email mandate da un account privato, quando lei era segretaria di Stato, salvo poi chiuderlo pochi giorni dopo. Nel 2020, infine, i repubblicani si fecero illusioni sull’impatto del ritrovamento di un computer di Hunter Biden, il figlio di Joe, che poteva contenere informazioni imbarazzanti, ma che invece non cambiò l’inerzia della campagna.
Giornalista dal 1972, è stato per molti anni corrispondente dell'ANSA da Bruxelles, Parigi, Washington e direttore dal 2006 al 2009. Collabora con numerose testate giornalistiche italiane e internazionali ed è regolarmente ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche. Dal 2017 al 2019 è stato direttore responsabile di AffarInternazionali.it.