Spagna: perché nulla cambi

A differenza di Francia e Germania, in Spagna non c’è stato nessun terremoto. I risultati delle elezioni europee non cambiano granché lo scenario politico. Il paese rimane spaccato in due: la destra si rafforza, come nel resto d’Europa, ma i socialisti, come in Portogallo, superano quota 30% e resistono. Non c’è stato, in sintesi, il tanto atteso plebiscito richiesto dal leader del Partido Popular (PP), Alberto Núñez Feijóo, per cacciare Pedro Sánchez dal Palazzo della Moncloa.

Niente exploit per i Popolari, i Socialisti resistono ancora

I popolari, dunque, vincono le elezioni con il 34,2% (22 deputati, +9), ma non sfondano. Recuperano più che altro i voti che erano andati a Ciudadanos, che si ferma a un misero 0,7%, quando nel 2019 ottenne il 12,2% e 8 deputati. Si tratta, insomma, di una vittoria ai punti per il PP o quasi un pareggio, soprattutto se si tiene conto delle aspettative createsi: fino a due mesi fa i sondaggi prevedevano una débâcle per Sánchez che, ancora una volta, dimostra di avere più vite di un gatto. Il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) perde appena il 3% rispetto al 2019 e manda a Bruxelles 20 deputati (perdendone uno), giocandosi con il Partito Democratico la prima piazza nel gruppo dei socialisti europei.

L’estrema destra avanza anche in Spagna, ma a a differenza del resto d’Europa, e ancora una volta in linea con il Portogallo, non fa l’en plein. Vox si consolida come terzo partito, migliorando i risultati di cinque anni fa (9,6%, 6 deputati, +3), ma perde alcuni punti percentuali rispetto alle legislative del 2023. La sorpresa è stata, però, l’irruzione di una nuova lista di ultradestra, Se Acabó la Fiesta – letteralmente: È Finita la Festa –, lanciata da un influencer complottista, Alvise Pérez, ispirato dalla Alt Right americana e dal fenomeno Milei, che ha ottenuto un inaspettato 4,6% (3 deputati).

A sinistra, invece, sia Sumar che Podemos escono indeboliti o addirittura con le ossa rotte. Il primo, socio di governo di Sánchez, si ferma al 4,6% (3 deputati), mentre il secondo, presentando l’ex ministra Irene Montero come capolista, sfiora il 3,3% (2 deputati). Nel 2019, con il nome di Unidas Podemos, avevano ottenuto insieme il 10% e un deputato in più. La sconfitta è palese, tanto che nemmeno 24 ore dopo la ministra del Lavoro Yolanda Díaz, che di Sumar è stata l’artefice, ha rassegnato le dimissioni dalla guida del partito.

Per completare il quadro, rimangono le forze regionaliste e nazionaliste periferiche che in totale eleggono cinque deputati. Gli indipendentisti catalani confermano il retrocesso elettorale mostrato nelle elezioni regionali dello scorso mese di maggio. Hanno perso un milione di voti rispetto al 2019, quando però la partecipazione era stata del 60,7% (ora scesa al 49,2%) perché si votava anche alle amministrative. Junts per Catalunya (JxC), la formazione guidata da Carles Puigdemont, riesce a confermare solo uno dei tre deputati che aveva nella scorsa legislatura. Ahora Repúblicas, coalizione che riunisce Esquerra Republicana de Catalunya, i baschi di EH Bildu e il Bloque Nacionalista Galego, grazie alla buona performance di questi ultimi due partiti, mantiene invece i tre deputati ottenuti cinque anni fa. Infine, il Partido Nacionalista Vasco (PNV) conferma il suo unico rappresentante a Strasburgo.

Bipartitismo e destra spaccata, le europee mandano messaggi chiari

Oltre alla tenuta di Sánchez, due sono le principali chiavi di lettura di questo voto. Da una parte, i partiti tradizionali, popolari e socialisti, si rafforzano: insieme sommano quasi un terzo dei voti espressi, quando nel 2014, in piena ondata degli Indignados, non avevano raggiunto nemmeno il 50%. In sintesi, torna, almeno in parte, il bipartitismo. Una dinamica già visibile nelle elezioni legislative di un anno fa.

Dall’altra, la destra, che torna a dividersi in tre tronconi con l’entrata in scena di Se Acabó la Fiesta, non riesce a essere chiaramente maggioranza nel paese. Con un problema, per di più, fondamentale: la radicalizzazione a destra impedisce al PP di essere un partito appetibile per i nazionalisti catalani e baschi di centro-destra – come JxC e PNV – con i quali in passato è arrivato sovente ad accordi. Ciò comporta che la divisione della politica spagnola non deve leggersi solo nel tradizionale asse destra-sinistra, ma anche in quello dell’organizzazione territoriale dello stato. Ossia, tra un blocco centralista (la destra spagnolista) e il blocco della cosiddetta Spagna periferica (le sinistra e i nazionalisti catalani, baschi e galiziani), favorevoli a un maggiore decentramento amministrativo. Le uniche regioni in cui i socialisti hanno ottenuto i migliori risultati sono difatti proprio la Catalogna, i Paesi Baschi, la Navarra e le Canarie.

Le elezioni europee chiudono in Spagna un intenso ciclo elettorale, apertosi con le regionali in Galizia a febbraio e continuato con quelle nei Paesi Baschi e in Catalogna. Teoricamente, ora non si va più al voto fino al 2026. Le destre hanno fallito nel tentativo di affossare Sánchez, mobilitando le piazze contro la legge di amnistia per gli indipendentisti catalani – approvata in via definitiva a fine maggio – e utilizzando la macchina del fango contro la moglie del premier per un apparente caso di corruzione basato su denunce di associazioni e media complottisti di estrema destra. Il leader socialista ha dunque la possibilità di concentrarsi sull’azione di governo.

Rimane, però, ancora una volta, lo scoglio catalano. A Barcellona non c’è ancora una maggioranza di governo. I socialisti hanno vinto le elezioni regionali, ma hanno bisogno di un accordo con Esquerra Republicana. C’è tempo fino a fine agosto, altrimenti in autunno si torna a votare. L’incapacità di risolvere il rebus catalano potrebbe complicare il cammino di Sánchez: i voti degli indipendentisti, non solo di ERC ma anche di JxC, sono infatti fondamentali per non andare sotto nelle Cortes di Madrid. A tutto ciò ora si aggiunge inoltre la crisi interna a Sumar. La stabilità potrebbe dunque essere un miraggio. La risposta, comunque, si avrà nelle prossime settimane o, al più tardi, in autunno quando si dovrà votare la legge di bilancio.

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