Russia, jihad e Ucraina: un’ossessione pericolosa

Il 23 giugno 2024, una quindicina di poliziotti e diversi civili, tra cui un prete ortodosso, sono stati uccisi da militanti armati nella repubblica russa del Daghestan. Uomini armati hanno sparato contro una sinagoga e una chiesa a Derbent, città situata sul Mar Caspio. Quasi in contemporanea, a Makhachkala, la capitale del Daghestan, si è verificato un altro attacco contro una chiesa e un checkpoint della polizia.

Sebbene non sia stata immediatamente rivendicata la responsabilità degli attentati, le autorità hanno avviato un’indagine con l’accusa di terrorismo. Questo attacco è il primo di un certo impatto avvenuto in Russia da marzo, quando militanti appartenenti allo Stato Islamico del Khorasan (IS-K), l’incarnazione afgana dello Stato Islamico, hanno attaccato la sala concerto Crocus City Hall di Krasnogorsk (presso Mosca), uccidendo circa 150 persone. Nonostante l’evidente ritorno di un pericolo sistemico per lo stato russo, quello jihadista, questo ritorno continua a essere visto – e usato strumentalmente – per alimentare e rafforzare il supporto interno per la guerra di aggressione russa in Ucraina.

Alla fine di maggio 2024, il capo dell’FSB, i servizi segreti russi, Alexander Bortnikov, ha ammesso per la prima volta che l’attacco del marzo scorso fu coordinato via internet da militanti appartenenti dell’IS-K. Tuttavia, Bortnikov ha anche ripetuto il mantra putiniano che vede l’Ucraina essere dietro l’attacco. Stando a quanto riferito l’agenzia di stampa statale TASS, Bortnikov ha dichiarato: “Le indagini sono in corso, ma è già sicuro affermare che l’intelligence militare ucraina è direttamente coinvolta in questo attacco.”

L’attentato al Crocus City Hall ha dimostrato come la Russia resti vulnerabile agli attacchi jihadisti. Nel tentativo di ricostruire lo stato russo dopo il caos degli anni ’90, Vladimir Putin ha combattuto per anni e anche con una mano estremamente pesante i movimenti jihadisti caucasici. Per molti, tale minaccia, se non del tutto sparita, era quanto meno sopita. L’attacco di marzo ha dimostrato che è ancora viva. Inoltre, un attacco così significativo in termini di vittime dimostra anche che concentrarsi sull’Ucraina comporta un alto costo in termini di risorse, attenzione e capacità, il che lascia la Russia scoperta su altri fronti. Tuttavia, il fatto che la leadership russa continui a collegare l’attacco alla situazione in Ucraina dimostra che, rafforzare il sostegno interno alla guerra di conquista in Ucraina rimane la priorità massima di Mosca. Putin ha cercato di collegare l’attentato a un presunto complotto ucraino già dalle prime ore dopo la strage. Tuttavia, le prove fornite sono risibili.

L’ossessione della Russia nel collegare l’attacco all’Ucraina, con poche evidenze fattuali e contestuali, deve servire come ulteriore monito per coloro che credono che il ritorno di altre minacce interne possano indebolire la determinazione di Putin sull’Ucraina. La comunità transatlantica deve quindi continuare a rafforzare il sostegno all’Ucraina, poiché questo è l’unico modo per bilanciare Mosca.

Negli ultimi anni, molti avevano dimenticato quanto fosse significativa la minaccia jihadista per la Russia. Storicamente, l’impero russo prima e la formalmente atea Unione Sovietica poi erano considerati grandi nemici dell’Islam, sia nelle sue incarnazioni politico-imperiali (si pensi alla rivalità con l’impero ottomano, ad esempio) sia da un punto di vista più strettamente religioso. L’invasione sovietica dell’Afghanistan – strumentale nel costruire quel particolare momento in cui salafismo e wahhabismo si fusero con ideali e pratiche rivoluzionari, creando la miscela che ha contribuito all’avvento globale di Al-Qaeda – ha rappresentato un momento di svolta per il jihadismo globalmente inteso. La narrazione propagata dall’IS-K fa ancora frequentemente riferimento al coinvolgimento storico della Russia in Afghanistan come a una cesura epocale.

Le politiche assertive di Putin in Africa e in Medio Oriente nell’ultimo decennio hanno anche rafforzato il valore della Russia come obiettivo per gli attacchi jihadisti. Nella terminologia jihadista, la Russia potrebbe essere considerata un nemico vicino, dato la storia di oppressione dei musulmani russi e le guerre portate da Mosca nelle periferie musulmane nel Caucaso.

Tuttavia, Mosca è diventata anche un nemico più generale dello Stato Islamico alla luce del suo sostegno per attori come Bashar al-Assad, i curdi e Hamas. Quest’ultimo è visto come un “nemico” dai gruppi più radicali perché troppo concentrato su questioni nazionali e si allinea con “infedeli” sciiti, esattamente come la Russia, attraverso la sua alleanza con l’Iran e Hezbollah.

Inoltre, il sostegno della Russia è strumentale per la lotta di alcuni governi dell’Africa sub-sahariana contro i rami locali dello Stato Islamico attraverso le forze una volta chiamate “Wagner”. Mosca usa questi mercenari per aumentare la sua influenza nei paesi che affrontano una crescente minaccia jihadista e le cui élite sono diventate sempre più scontente della Francia, la principale potenza europea nel Sahel, e l’Occidente nel suo insieme. Mosca è anche attiva in una campagna politico-religiosa aggressiva, utilizzando la Chiesa ortodossa russa come strumento di proiezione del potere e proselitismo. Questo crescente attivismo religioso probabilmente aggiungerà carburante all’odio dei gruppi jihadisti verso Mosca.

L’attacco al Crocus Hall è un potente promemoria di quanto siano significative le minacce jihadiste per la Russia. Le autorità russe, nonostante gli avvertimenti (anche da parte americana), non sono riuscite a evitare lo spargimento di sangue. Immediatamente dopo l’attentato, hanno cercato di collegare l’attacco alla situazione in Ucraina. Putin e il suo entourage hanno provato a rappresentare il massacro al Crocus Hall come prova che la Russia sia “sotto assedio”. La propaganda in Russia funziona ancora bene ed efficacemente. Fuori dalle grandi città, le narrazioni del Cremlino trovano infatti terreno fertile.

La persistenza di Mosca nell’incolpare l’Ucraina dimostra che costruire l’idea di un “asse del male” anti-russo centrato sull’Ucraina, usando l’attacco del 24 marzo per potenziare la propaganda interna, rimane chiaramente la priorità massima di Putin. L’insistenza continua del Cremlino nel supportare la sua narrazione sui presunti collegamenti di Kyiv con l’attacco dimostra che la guerra di aggressione in Ucraina oramai è l’unico prisma attraverso cui il Cremlino vede la realtà internazionale al momento. Neanche il ritorno di una minaccia alla sicurezza interna pericolosa come il terrorismo jihadista spingerà Putin a distogliere l’attenzione dal suo obiettivo esistenziale, e sulla cui riuscita scommette anche per mantenere il suo potere in Russia: soggiogare l’Ucraina e la sua indipendenza.

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